Storia del Jazz – Capitolo 6 – Lester Bowie

Lester Bowie

“Lo spirito non discenderà senza canti”.

Con questo antico proverbio africano vogliamo introdurre un esponente del jazz più vicino a noi nel tempo, che ha saputo fondere musica e impegno politico, manifestando soprattutto quegli importanti legami con l’Africa, che stiamo cercando di sottolineare fin dall’inizio. Parleremo del trombettista, band-leader e compositore Lester Bowie, leggendario musicista che, per molti anni, ha legato il suo nome ad un gruppo altrettanto famoso e significativo, l’Art Ensemble Of Chicago. Per capire immediatamente i forti legami tra il modo di intendere la musica per Bowie e la realtà sociale che lo circonda, basti pensare ad un suggestivo concerto che egli tenne in Svizzera il 1° maggio 1992 con la Brass Fantasy; il titolo che verrà dato alla testimonianza discografica successiva, The fire this time!, non è affatto casuale. In quei giorni infatti a Los Angeles è in atto una delle più violente rivolte razziali che l’America abbia mai subìto: la ribellione del south center di Los Angeles contro l’iniquo verdetto che assolve quattro poliziotti (bianchi!), rei di aver pestato selvaggiamente un nero alla guida della sua auto, per il solo fatto di aver violato il codice della strada! Oltretutto esiste una ripresa amatoriale eseguita da un passante e, malgrado ciò, il tribunale la fa fare franca ai, cosiddetti, “tutori dell’ordine”. I disordini successivi durano per quasi cinque giorni e i danni provocati raggiungono cifre esorbitanti; senza contare morti e feriti (più di duemila!).

Quel concerto giunse proprio all’apice di quello scontro. Si risvegliavano nei musicisti sentimenti di indignazione e rabbia per gli atteggiamenti irrazionali e regressivi che avevano fatto esplodere quella sollevazione. Sentivamo che era finito il tempo di quello schifo. Naturalmente amarezza e scontento covavano da anni, in quanto la discriminazione è tuttora un brutale aspetto della vita degli Stati Uniti. Quel processo-farsa ai poliziotti non fece che accendere la miccia perché tutta quella frustrazione esplodesse. Suonammo quel concerto con questi pensieri in mente. Volevamo che il mondo sapesse (1).

Il titolo perciò si spiega facendo riferimento alle parole che James Baldwin disse nel 1963 per accendere gli animi neri ad una più continua ribellione sociale allo status-quo nordamericano. Baldwin disse “fuoco la prossima volta”; Bowie, fuoco “questa” volta!

Bowie ci appare dunque come un vero, integro artista colto ed informato e lo testimonia continuamente nel suo cammino artistico, non lungo (è morto a soli 58 anni nel 1999), ma pregnante. Con poche parole il trombettista ci traccia un inquietante quadro sociologico dell’America del suo (e del nostro) tempo:

Io sono sempre stato un uomo di Malcolm X. I seguaci di King, in realtà, non avevano un programma per raggiungere alcunché. Il loro unico traguardo era l’integrazione. […] Quel che deprime è che l’integrazione non funziona, tutto qui. Non è solo questione di gente che possa sedersi insieme sullo stesso dannato autobus. E non si tratta di bianchi, neri, gialli: si tratta di economia, dell’oppressione sulle classi più deboli di ogni colore. […] Ciò di cui abbiamo bisogno è rovesciare una politica che mantiene il sistema delle classi e regge la trappola della povertà (2).

Un articolo di Francesco Martinelli per Musica Jazz diceva:

a metà tra Groucho Marx e Louis Armstrong, il suo personaggio sul palco è divertente e inquietante allo stesso tempo, la sua musica un punto interrogativo che aleggia sulla platea: stiamo facendo spettacolo, ma voi capite davvero quante dimensioni ha il nostro show?(3).

Fa riflettere certamente tale assunto, che suggerisce la preziosità del lavoro del trombettista all’interno del contesto sociale in cui opera. Ciò che immediatamente colpisce del sound di Bowie come solista e, in particolare, all’interno della formazione dell’Art Ensemble Of Chicago è il senso di ironia che disgrega spietatamente qualsiasi sovrastruttura intellettualistica. E così i clacson iniziali e finali in Nice Guys, tratto dall’omonimo album d’esordio nel 1978 con l’etichetta Ecm. Zero è invece una composizione del trombettista del 1984, dove si alternano, ad una scrittura fortememente hard-bop (soprattutto nell’esposizione tematica a tre voci), gli assoli densi e conturbanti di tromba appunto, tenore (Jarman), contrabbasso (Malachi Favors Maghostus) e batteria (Don Moye). A mò di interludio si usano i background suonati in precedenza sotto i primi 2 solisti. Breve sezione free e di nuovo esposizione del tema, sempre dal sapore caraibico. Interessantissimo è poi Old time southside street dance. Brano composto da Jarman nel 1980 e tratto dall’album Full force, ha in sé tutti gli aspetti stilistici e sovratestuali del gruppo. Si parte con una citazione da Cool blues di Charlie Parker e si entra in un tema infuocato e carico di addensamenti sonori che portano direttamente a lunghe sezioni open in chiara dialettica free. Bowie esegue un lungo assolo dove dà anche dimostrazione di una sua originale capacità tecnica: saper improvvisare nel registro più basso del suo strumento. Cifra questa non comune fra i trombettisti. L’intento, in generale, è quello di evocare le danze di strada del quartiere nero di Chicago in modo furioso e drammatico, proprio per esternare il senso di segregazione di quella zona della città.

Dove sta l’Africa in tutto questo, dunque? Naturalmente in tutte le pieghe più riposte di questi brani composti e arrangiati più o meno direttamente sotto l’influsso di un “modus pensandi” prettamente afro.

Se la filosofia dell’AEOC è quella di rappresentare tutta la musica nera, le radici africane sono rese evidenti, vive e onnipresenti dai musicisti truccati, dal fatto che tutti suonino le percussioni, dall’evidenza che la musica è estremamente paritaria e collettiva, tribale e si espande, verso chi ascolta, con un alto grado di coinvolgimento. […] Ciò che importa qui è che l’Art Ensemble l’Africa la porta in scena, la inscrive nel suo codice genetico, manifesta con senso dell’iperrealismo e dello straniamento ciò che era velatamente accennato nella musica di “King” Oliver e nel primo “Duke” Ellington, si situa all’apice di quel tipo di riconoscimento esplicito del Continente Nero (4).

Non dimentichiamo, a questo proposito, che l’universo sociale e sonoro dell’Africa è sempre stato particolarmente caro a Lester Bowie; pensiamo infatti che nel 1977 il trombettista di Chicago decide di andare in Nigeria per conoscere, niente meno che, Fela Kuti, perfetta icona di musicista e militante nero.

Rimarrà suo ospite per circa sei mesi; dalla loro amicizia nasceranno diverse collaborazioni discografiche: Bowie suona infatti nel brano Colonial Mentality (tratto dal disco Sorrow, Tears & Blood) e, nell’album No Agreement, nel pezzo omonimo e nel brano Dog eat dog.
Non ci dilungheremo sulla vita di Fela Kuti, artista così significativo per la riscossa nera in Africa, ma vorremmo comunque sottolineare quanto la portata del suo messaggio sia ancora valida e che peso abbia avuto sulla cultura della Nigeria e non solo. Sostiene infatti Mabinouri Kayiode Idowu, biografo e amico di Kuti che:

è quella la musica che Fela voleva creare, una musica che facesse ben più che consolare o venir voglia di ballare, una musica che avesse scosso le coscienze e che si ponesse come obiettivo la liberazione del popolo nero(5).

In termini più strettamente musicali, il cantautore voleva porre fine all’ormai sclerotizzato highlife e lasciare spazio all’afro-beat. Il primo è uno stile musicale popolare dell’Africa occidentale che fonde sonorità occidentali e musiche tradizionali;

la denominazione highlife è rivelatrice della nuova cultura urbana creata dal colonialismo. Due stili principali si distinsero: l’orchestra da ballo, con gli ottoni e strumenti occidentali e i gruppi più popolari centrati sulla chitarra e pochi altri strumenti. […] L’afro-beat, invece, indica esplicitamente la musica suonata da Fela Kuti insieme al suo batterista Tony Allen: una miscela di jazz e highlife(6).

Già da Open & Close la sezione ritmica venne rinforzata da una seconda chitarra – definita tenor guitar – suonata su un registro a metà tra il basso e la chitarra ritmica. I tre strumenti a corda si inserivano nella sezione ritmica come in un ensemble di percussioni yoruba [regione sud-occidentale della Nigeria, abitata dall’etnia omonima n.d.r.] suonando semplici e ripetitive parti ritmiche senza variazioni, che si intrecciavano tra loro e con la batteria di Tony Allen e le congas di Henry Kofi. Comprendere lo stretto legame tra le tre chitarre (compreso il basso) degli Africa 70 e i tamburi degli ensemble tradizionali è un passaggio fondamentale per riconoscere le profonde radici africane della musica di Fela Kuti. “Ascolto la musica pop per essere informato su cosa succede – disse Fela – ma preferisco ascoltare il suono profondo proveniente ovunque dai villaggi africani. E’ lì che trovo una moltitudine di ritmi carichi di spiritualità.” Lo stesso accadeva per i fiati che nella musica di Fela sostituivano i talking drums, i tamburi parlanti degli ensemble yoruba (7).

Il 1977, anno di uscita del disco No agreement, di cui vorremmo parlare, è un momento molto importante per le drammatiche vicende che riguardano la vita di Fela. Il 18 febbraio, infatti, viene letteralmente assaltata la sua abitazione, da tempo soprannominata “la Repubblica di Kalakuta”; un vero e proprio rifugio per ballerini, musicisti e altre persone coinvolte in attività artistiche e politiche. Durante quella sortita, operata da quasi mille soldati nigeriani, finirono in prigione 27 persone, tra cui il padrone di casa. Il governo nigeriano, più volte bersaglio dell’attiva propaganda di Kuti, interviene senza mezzi termini con il preciso obiettivo di mettere a tacere la voce del più potente bardo africano contemporaneo. Fortunatamente ciò non basta a frenare la tenacia di Fela. L’anno successivo, al Festival di Berlino, malgrado verrà fischiato da un pubblico impreparato ad affrontare la sua personalità, il giornalista Holger Krussmann scriverà:

E’ il primo musicista dell’Africa post-coloniale ad aver avuto la fortuna di spezzare i confini del suo continente. Con la sua musica Fela Kuti è un personaggio adulato nell’Africa nera. Il suo discorso è rivoluzionario, le sue parole pericolose per il regime del suo paese(8).

Abbiamo analizzato il brano No agreement per sintetizzare lo stile di Fela, ma soprattutto per far notare quanto anche Lester Bowie fosse perfettamente a suo agio in un genere non direttamente ascrivibile a quelli da lui praticati. Il pezzo, che dura più di 15 minuti, è macroscopicamente diviso in 2 sezioni, ognuna della quali presenta sottosezioni perfettamente distinte. La chitarra inizia un riff di due battute che non abbandonerà mai per tutta l’esecuzione

Es. 1

Dalla settima battuta l’organo, suonato dallo stesso geniale Fela, inizia una improvvisazione sugli accordi di Fmin e Bb, utilizzando la scala pentatonica di Ab. Dopo circa 27 secondi la batteria inizia il suo accompagnamento in perfetto stile afro-beat e di seguito mostriamo la trascrizione di questa figurazione

Es. 2

[Per la legenda: le note più in alto sono i piatti; le note centrali indicano il rullante; le note più in basso la cassa]

Lungo il brano si aggiungeranno poi congas e percussioni varie, a rimarcare questo pattern di base.
Ad 1’22” entra il basso elettrico (Nweke Atifoh), il cui disegno ritmico è il seguente e verrà variato solo leggermente dal musicista

Es. 3

Dopo 8 battute, scandite chiaramente dagli accordi tenuti dell’organo su Fmin e Bb, entra il tema principale affidato ai fiati (3 trombe, sax tenore, sax baritono). E’ un tema quasi minimalista, iterato secondo la più squisita prassi strumentale africana. E’ idealmente diviso in 3 parti (6 battute la prima, ripetute 3 volte; 4 battute la seconda, ripetute 2 volte; 4 battute la terza, ripetute 3 volte; infine di nuovo la prima parte).

Es. 4

Dopo il solo del baritono di Lekan Animashaun, c’è un break dell’orchestra e di nuovo la chitarra riprende il suo riff. Su di esso, a 5’31” ascoltiamo la tromba di Bowie. E’ un assolo semplice e cantabile, ma virile, arricchito da tutti quegli effetti sonori, cui il trombettista è capace (glissando, “frullati”, ghost notes, ecc.). Per l’essenzialità e la pregnanza delle note scelte fa immaginare il Davis “elettronico” degli anni di Tutu. Di seguito mostriamo la trascrizione delle prime battute.

Es. 5

A circa metà del solo parte un background sempre più insistente che diverrà anche il secondo importante tema su cui Fela canterà il testo di questa canzone. E’ la seconda sezione del brano
Es. 6

La voce, a 11’07”, inizia il suo ritornello-riff sulle parole “no agreement today, no agreement tomorrow…no agreement never”. Mentre il testo prosegue, il coro contrappunta con la ripetizione delle parole citate. Idowu, a questo proposito nota:

Le risorse naturali dell’Africa sono immense; talmente immense che tutti i neri dovrebbero essere milionari. Non si possono accettare la miseria e la fame, bisogna dirlo chiaro e forte: “Lo dice mio nonno, lo dice mia nonna, lo dice mio papà, lo dice la mia mamma! Nessun compromesso oggi! Nessun compromesso domani!”(9)

Concludiamo questa breve digressione su Fela Anikulapo-Kuti con le commosse parole del suo biografo:

Non era né un Miles Davis, né un “Che” Guevara. Non era neppure una reminiscenza del passato, ritrovata nella savana, ma semplicemente un prodotto della storia d’Africa. E di un’Africa in lotta contro il colonialismo. Pensava che chiunque volesse impressionare il pubblico avrebbe dovuto far parte del suo entourage. Chi non sa da dove viene non saprà mai dove va.(10)

Tornando a Lester Bowie, vorremmo citare una recente intervista, apparsa su Musica Jazz, al famoso musicista africano Foday Musa Suso, che ha posto un inquietante dubbio sulla “genuinità” dell’esperienza dell’Art Ensemble. Premettiamo che Musa Suso ha da sempre cercato di mettere nella più degna evidenza la tradizione millenaria dei griots, i cantanti africani che, accompagnati dal suono di particolari strumenti a corde, costituiscono ancor’oggi la memoria del patrimonio culturale collettivo di molti paesi dell’Africa centrale. Riportiamo la parte dell’intervista che ci interessa:

D.: Vivi ormai da più di trent’anni a Chicago, luogo dove, grazie all’Aacm e in particolare all’Art Ensemble of Chicago, si è cercato di riscoprire l’eredità africana nel jazz. Come giudichi questi tentativi?

R.: Su questo punto la mia opinione potrebbe forse non piacerti. Conosco i musicisti dell’AEOC, viviamo tutti nell’area di High Park e spesso capita di incontrarci. Però, quando parlano della musica africana, credo non sappiano veramente di cosa si tratta. Se suonassero in un villaggio africano, in quella che per loro è una musica legata all’Africa, la gente non vi si riconoscerebbe affatto. Un conto è andare in Africa e registrare qualcosa con i musicisti locali, altro conto è suonare la tua musica tingendoti la faccia all’africana.

D.: Puoi spiegarmi meglio la differenza?

R.: La differenza è enorme. E’ indispensabile imparare le forme tradizionali della musica africana per poterla suonare. Quello che fanno i neri statunitensi quando cercano di imitare la musica africana sono spesso solo schiamazzi. Persino uno strumento come la batteria cade in questo errore. La musica del djembe oggi è nota in tutto il mondo, ma alla fine rischia di essere solo un grande fracasso. In Africa non è così: quando si suona la batteria si sta innanzitutto parlando ai danzatori, fornendo loro delle vere e proprie indicazioni di movimento: vai a destra, vai a sinistra, salta verso l’alto e chinati in basso .(11)

Una riflessione a parte merita un’altra formazione con cui si esibisce spesso Bowie, la Brass Fantasy, di cui accennavamo in apertura; gli esperimenti con questo gruppo sono diversi se osservati dal punto di vista delle scelte musicali. Qualcuno ha giudicato questo gruppo addirittura “commerciale”, per le sue aperture al rap, al hip-pop, al funky.

In realtà Bowie fa solo ciò che prima di lui hanno fatto il suo idolo Armstrong e il suo concittadino Miles Davis: ruba materiali alla musica di successo, si diverte a suonarli e li reinserisce in un contesto più ampio, tale da suggerire all’ascoltatore altre possibili strade (12).

Si ascoltino per esempio alcuni splendidi album come Brazzy voices, del 1994 o Avant pop, del 1986. In generale, in essi si nota che:

dietro una facciata spettacolare di macchina da intrattenimento c’è sempre un’idea musicale precisa sostenuta da una logica tipicamente orchestrale[…]. In ogni caso, i brani sono riproposti in una chiave interpretativa nera: un’altra faccia, in definitiva, della great black music di stampo Art Ensemble, solo apparentemente disimpegnata (13).

Ancora una volta dunque Bowie lascia la sua impronta inconfondibile sul suolo musicale da lui percorso: sintesi estremamente accurata fra materiali musicali utilizzati e stili in cui racchiudere tali materiali.

Tutto ciò fa della Brass Fantasy uno dei simboli di certe tendenze del jazz odierno, un parto naturale di quegli anni ’80 che hanno visto fiorire numerose proposte con un piede nel passato e l’altro nell’attualità. La musica della BF è, perciò, musica di sintesi: una sintesi che, nell’abbracciare e inglobare frammenti di un variegato immaginario sonoro, risulta di grande originalità, non avendo sul piano dei contenuti altri modelli cui rifarsi direttamente .

All’interno di questo quadro l’ensemble gestisce le sue potenzialità al meglio; nel pieno rispetto della tradizione delle compagini musicali africane, anche la Brass Fantasy tende a dar voce a tutti i solisti, per cui i musicisti che la compongono non sono solo dei bravi professionisti “da sezione”, ma danno il loro contributo anche dal punto di vista improvvisativo, nonché compositivo, scrivendo, ciascuno, brani da destinare all’orchestra.

Famose sono le riletture di brani celebri che compie quest’orchestra: da Don’t cry for me Argentina di Lloyd Weber a Smooth operator di Sade, a Beautiful people niente meno che di Marilyn Manson! E tali riletture spaziano dalla parodia al rispetto stilistico che però non scade mai in facili ossequiosità.

E’ lecito supporre che la loro forza sia soprattutto nella scelta del repertorio derivato dalle musiche nere: da James Brown a Michael Jackson <> .
Nei prossimi appuntamenti discorreremo di quattro pianisti che, al pari, di Bowie, hanno tentato di trasportare le loro più sentite emozioni – provenienti dal rispetto e dal recupero della tradizione africana – sul loro strumento, per antonomasia forse il più ”occidentale” e perciò il più apparentemente lontano da tale cultura. Cominceremo con Randy Weston.

—————————————————————————

1. Lester Bowie, cit. in Luigi Onori, Il jazz e l’Africa, pagg. 115-116.
2. Lester Bowie, op. cit., pag. 116.
3. Francesco Martinelli, Musica Jazz, anno 63 n.2, febbraio 2007.
4. Luigi Onori, op. cit., pagg. 75-76.
5. M.K. Idowu, Fela Kuti, Viterbo, Stampa Alternativa, 2007, pag. 35.
6. M.K. Idowu, op. cit., pag. 104-105.
7. Giulio Mario Rampelli, Fela Kuti, discografia ragionata; per Music on Tnt.
8. H. Krussmann, cit. in M.K. Idowu, op. cit., pag. 48
9. M.K. Idowu, op. cit., pag. 101.
10. M.K. Idowu, op. cit., pag. 50.
11. Foday Musa Suso, Intervista con Daniele Mastrangelo, Musica Jazz, anno 64°, n.2 febbraio 2008.
12. Francesco Martinelli, Musica Jazz, cit..
13. Roberto Valentino, Musica Jazz, anno 55°, n.6, giugno 1999.
14. Roberto Valentino, Musica Jazz, op. cit.
15. Roberto Valentino, Musica Jazz, op. cit.