Storia del Jazz – Capitolo 5 – Andrew Hill
Il bebop affermò il blues come la più significativa forma afroamericana della musica nera, riproponendo la straordinaria attualità degli impulsi base del blues. […] Nel bop la melodia era, in un certo senso, semplice estensione delle parti ritmiche. Molte volte era come se le parti ritmiche della musica fossero inserite direttamente nella linea melodica, che assumeva così una valore di modulo ritmico.
Con queste parole di Leroi Jones, ancora una volta puntualmente efficaci a chiarire importanti contingenze storiche, vogliamo introdurre un musicista che pare aver iniziato il suo percorso proprio da tali assunti, per sviluppare poi un suo originale cammino stilistico, che è ancora in fase di studio data anche la sua recentissima scomparsa (il 20 aprile 2007). Si tratta del pianista e compositore afroamericano Andrew Hill, particolarmente attento alla realtà storica a lui contemporanea e al problema dei neri in America. Abbiamo scelto di parlare di lui in questo capitolo, dedicato ai musicisti che hanno fatto la storia del jazz, e non nel successivo ispirato all’avanguardia, perché Hill può essere, a buon diritto, considerato una sorta di “ponte” tra la tradizione e l’innovazione jazzistica.
Egli sembra aver sintetizzato tutte le precedenti tendenze “afrocentriche” e aver aperto nuovi orizzonti sonori in questa precisa linea stilistica.
Grande amico di Leroi Jones, Andrew Hill ha fatto parte con lui, nella metà degli anni ’60, dell’esperimento del Black Arts Repertory Theatre/School;
strutturato al pari di una comune, esso divenne in poco tempo uno dei punti di ritrovo ed elaborazione degli artisti e intellettuali afroamericani ispirati al nazionalismo nero
(Luigi Onori).
Ad un primo impatto il pianismo di Hill appare complesso e tortuoso, sia per quanto concerne la scrittura tematica che negli assoli; certamente ciò gli aderiva anche dall’aver studiato prima con Earl Hines poi con Bill Russo e anche con il compositore tedesco Paul Hindemith.
Malgrado la grande discrezione che aleggia attorno al suo nome (“discrezione” che appare a volte sotto le inquietanti sembianze dell’oblio), la produzione artistica di Hill è piuttosto vasta; basti pensare alla recente uscita in cofanetto della Blue Note – etichetta per la quale Hill ha registrato per almeno 3 anni- di ben 7 cd, tra cui meritano di essere ricordati: Black fire, Judgment, Point of departure, Andrew!, Compulsion.
Proprio quest’ultimo disco, del 1965, merita la nostra attenzione a proposito delle precise scelte stilistiche operate dal Nostro.
L’organico non è certo casuale: tromba e flicorno (Freddy Hubbard), tenore e clarinetto basso (John Gilmore), contrabbasso (Cecil Mc Bee e Richard Davis nella sola traccia 3), batteria (Joe Chambers) e due percussionisti (Nadi Qaram e Renaud Simmons). Il disco presenta quattro tracce, che, in verità, sarebbe meglio intendere come quattro movimenti di un unico lavoro; Hill suona il piano come un vero strumento a percussione attraverso stilemi di accompagnamento fatti di cluster, insistenti ribattuti nel registro sovracuto ed eseguiti con un senso ampiamente free del ritmo.
L’effetto, arricchito dal fraseggio “urlante” dei due fiati, è quello di una improvvisazione estremamente libera, ma nello stesso tempo “inchiodata” da un time reso oltremodo complesso dalle microvariazioni ritmiche delle percussioni. Nel finale il tenore sembra gemere sopra un accompagnamento “melodico” del piano e così le 2 voci si serrano una sull’altra, creando un suggestivo effetto di canto “percussivo”.
Non è un caso che Hill, nelle note di copertina del cd, possa dire di questo brano che you can hear field cries. You can hear the basic roots of jazz (il corsivo è nostro).
In Legacy non sono presenti i due fiati e così il piano ha maggiori possibilità di risaltare come quarto strumento ritmico, nonché timbrico: Hill alterna arpeggi ampi sulla tastiera a cluster ribattuti in tutti i registri dello strumento.
Vale sottolineare poi che il ruolo del basso, in tutti questi brani, non è certo quello di piazzarsi sulla rigida realizzazione del tradizionale accompagnamento walkin’; è piuttosto quello di controbilanciare le poliritmie del pianoforte e quelle dei tre percussionisti. Nella terza traccia infatti compaiono ben due contrabbassisti e con tale organico si raggiungono veramente densità sonore molto vicine alle orchestre africane tradizionali.
Premonition ha un tema esposto dal flicorno estremamente cantabile, ma sorretto dal cupo ruggito dei due bassi, l’uno dei quali suona una linea con l’archetto, mentre l’altro, in pizzicato, realizza più che altro, risposte ritmiche al canto. Il clarinetto basso interviene con discrezione solo nei momenti più drammatici del tema e il piano raddoppia saltuariamente la melodia armonizzandola. Il primo solo di Hubbard è fortemente “abbracciato” al contrabbasso con archetto di Davis, quasi una doppia, contemporanea improvvisazione. Al di sotto varie percussioni su cui risalta il suono metallico, ma discreto, del thumb piano (sorta di sansa africano, composto di lamine di metallo). E’ poi il turno del pianoforte che fraseggia servendosi anche dei bassi della sinistra, essendo in effetti assenti, ora, entrambi i contrabbassi. Solo le percussioni continuano il loro fondale percussivo mai invadente. Le dinamiche sono usate con grandissima varietà e costituiscono certamente una nota di originalità. Il clarinetto basso, col suo suono che richiama ascendenze tribali, si muove sinuosamente attraverso omologhe linee del basso con archetto. E’ quindi la volta proprio di Richard Davis che ottiene dal suono del suo strumento un profondo “monologo interiore” che sale poi fino a divenire quasi un lamento stridente ed ossessivo. Il tutto sull’apparentemente incurante percussione soggiacente. Il disco si chiude con Limbo, track più articolata nella struttura rispetto alle altre: 20 misure su una scansione ritmica più chiaramente “afro”. Per tutto questo Hill è stato definito il trait-d’union tra lo stile “jungle” di Ellington e la “giungla sonica” dell’Art ensemble of Chicago, di cui parleremo più avanti.
Anche il disco Pax, del 1975 e sempre prodotto dalla Blue Note, è degno di interesse; è da subito evidente il modo di suonare “negli spazi” da parte del pianista, con idee ritmiche assai libere da ogni schema prefigurato e tradizionalmente “swing”, malgrado basso e batteria possano, in certi casi, mantenere un time più marcato. La band è composta ancora da Hubbard alla tromba, da Joe Henderson al tenore, da Richard Davis al basso e da Chambers alla batteria. Già nel primo pezzo, Eris, un blues, si avverte quella elaborata tessitura ritmica di cui parlavamo. Tutti gli ensemble di Hill manifestano la cifra più evidente dello stile del loro leader: l’intensissimo interplay fra tutti i componenti. Un esempio lo abbiamo a circa 5 minuti dall’inizio di questo brano, in cui Hubbard alla tromba, attraverso un segnale sonoro dal vago sapore gospel, invita Chambers a seguirlo – marcando una figurazione funk- e Hill, che crea un ossessivo comping più o meno in quello stile pianistico.
Avevamo accennato alle strutture geometriche e articolate delle sue composizioni (non a caso stimolate anche dalle sue raffinate conoscenze classiche); ascoltiamo allora Pax, una contemplativa ballad, suddivisa in varie sezioni del tutto asimmetriche tra loro. Ancora, Euterpe, un medium swing che si trasforma poi in un latin. Erato e Roots ‘n’ Herbs sono eseguiti in trio e, mentre il primo fa oscillare il proprio metro su ritmi irregolari, il secondo inizia con una parte libera di basso e batteria, poi si va su un time più accentuato, ma subito abbandonato per una nuova sezione free e, infine, si giunge addirittura ad un sound rock.
In questo disco solo apparentemente i richiami all’Africa sono assenti, perché al di sopra di tutto non si può non avvertire il groove fortemente tribale, realizzato soprattutto dall’intenzione di creare un accompagnamento ritmico al solista, che sembri quasi seguire l’accentuazione di un complesso discorso parlato; come sottolinea ancora Leroi Jones, i tamburi dell’Africa creano delle intricate trame contrappuntistiche per le nostre orecchie di occidentali, perché tali trame in realtà non fanno altro che marcare le parti toniche di un linguaggio parlato per essi invece familiare.
Nel prossimo incontro, si parlerà di Lester Bowie, il cui nome, quasi automaticamente, si associa a quello dell’Art Ensemble of Chicago. Cercheremo di presentare tutte le sue più variegate sfaccettature e aggiungeremo una piccola digressione, parlando anche di un incontro importante da lui avuto con un grande musicista africano.