Storia del Jazz – Capitolo 10 – Omar Sosa – Il misticismo universale
Finché sarò vivo il mio messaggio sarà l’unità tra gli esseri umani, l’unità dello spirito, perché è l’unico modo per sopravvivere>.
Con queste parole, rilasciate in un’intervista a Luigi Onori, Omar Sosa sintetizza efficacemente tutta la sua filosofia e il suo modo di concepire la musica jazz. Il pianista, percussionista e compositore è nato a Cuba nel 1965 e, proprio per le sue peculiarità artistiche, incarna perfettamente lo spirito afroamerican che stiamo, fin dall’inizio, delineando.
Ciò che abbiamo sottolineato per Ibrahim vale anche per Sosa e cioè nelle incisioni del musicista cubano notiamo un vero senso di “musica totale”, che non prevede necessariamente l’emergere – scontato – del leader, ma una corale compartecipazione a tutta l’esecuzione. Due dischi, in particolar modo, mettono in luce questa evidente caratteristica: Sentir e Afreecanos, rispettivamente del 2002 e 2008. Del primo dei due possiamo intanto dire che lo stesso titolo (che ha il medesimo significato in italiano, francese e spagnolo) sottintende anche il “guimbri”, uno strumento tradizionale della cultura musicale Gnawa. Questa etnia marocchina è assai presente nella musica di Sosa perché è proprio una di quelle radici con cui si alimenta la sua musica. Ad essa si aggiungono – in una fusione tutt’altro che promiscua e confusa – riflessi dei Caraibi, la tradizione venezuelana e, naturalmente il jazz, con le sue armonie e con i suoi standard improvvisativi. <
L’album Sentir, pubblicato dalla Otà Records, ha vinto una Grammy Nomination ed è stato proclamato miglior album dell’anno nella categoria Afro-Caribbean Jazz. In esso, solo scorrendo l’elenco dei musicisti che vi prendono parte, abbiamo l’idea di quale commistione di suoni siamo pronti ad ascoltare: sono presenti il percussionista venezuelano Gustavo Ovalles, la cantante cubana Martha Galarraga, vari artisti marocchini, tra cui El Houssaine che, tra l’altro, duetta, nella sua lingua gnawa, con il rapper americano Sub-Z, nel brano Rojo y Negro; Sosa si esibisce, oltre che al piano, anche alle percussioni. Di questo disco abbiamo scelto un pezzo, Oda al Negro, che ci è sembrato particolarmente indicato per capire più a fondo lo stile del musicista cubano. L’esecuzione prevede, oltre a Sosa al pianoforte, una ricca compagine di percussioni: una clave, che marca un ostinato ritmico per tutto il pezzo, maracas e congas che dialogano direttamente con ciò che fa il piano, in un intrigante e solido interplay.
La velocità è a 220 battiti p. m. e il ritmo, già di per sé inconsueto, ternario. La scansione della clave è quella tipica della tradizione cubana (derivante, in questo caso, dalla formula ritmica tres y dos, ma, ovviamente adattata al metro ternario). Le maracas riempiono l’atmosfera caraibica con il loro caratteristico suono velato e le congas, come si anticipava, disegnano un serrato legame ritmico col pianoforte lungo tutto il pezzo, rendendone maggiormente intricata la già fitta trama sonora.
Su tutto questo emerge il protagonista; Sosa delinea un tema semplice nella struttura e nel profilo (si tratta di una melodia costruita sul modo eolio di La minore), ma assai denso di spunti ritmici. Il dialogo tra i due è favorito dalle numerose pause del piano;
il tema si va arricchendo lungo tutta l’esposizione,
fino a quando accordi discendenti non introdurranno l’improvvisazione vera e propria, basata sulla stessa lineare sequenza armonica del tema, ma con un’articolazione che si avvicina addirittura alla sensibilità di un jazz più “europeo” (complice anche l’uso frequente del pedale del “legato”).
A circa 1’25” l’improvvisazione di Sosa abbandona tale sound più occidentale per addentrarsi in un coinvolgente “abbraccio” con le percussioni. Per praticità e per far meglio risaltare tali valenze poliritmiche – di grande effetto all’ascolto – abbiamo trascritto esclusivamente le figurazioni ritmiche, senza soffermarci sulle singole note (perlopiù fatte di accordi tra destra e sinistra) e per confermare che l’originalità di questo pianista non è dettata tanto dalla scelta di tali note, quanto dal “posto” in cui esse sono collocate.
Ancora una volta l’assolo si modifica e prende l’aspetto, stavolta, di un fraseggio a metà tra la cantabilità europea e la propulsione cinetica afrocubana; di seguito, le misure iniziali:
Del secondo disco di cui vorremmo discutere, sarebbe sufficiente, ancora una volta, trascrivere l’intero elenco dei musicisti e della loro nazionalità per capire con che cosa abbiamo a che fare:
Omar Sosa (Cuba) piano, Fender Rhodes, vibrafono, marimba, percussioni
Julio Barreto (Cuba), batteria
Childo Tomas (Mozambique), basso elettrico
Stephane Belmondo (France), flicorno
Leandro Saint-Hill (Cuba), flato, alto sax
Mola Sylla (Senegal), vocals, percussioni
Baba Sissoko (Mali), talking drum, ngoni
Mamani Keita (Mali), vocals
Jorge Alabe (Brazil), rum, rumpi, agogo, vocals
Graca Onasile (Brazil), vocals
Lázaro Galarraga (Cuba), vocals, batá
Fanta Cissoko (Senegal), vocals
Orestes Vilató (Cuba), timbales
Lionel Belmondo (France), flauto di bamboo
Ali Wague (Guinea), tambin
Ali Boulo Santo (Senegal), kora
Mohamed Soulimane (Morocco), violino
Christophe “Disco” Minck (France), ngoni, kamalengoni, guitar-sitar
Ousseynou Piagne Epa (Senegal), batteria, zabar
Michael Spiro (U.S.A.), batá
Bill Ortiz (U.S.A.), tromba
Non se ne può certo negare la “mondialità”, anche e più presente che nel precedente Sentir, forse! Afreecanos esce nel 2008 sempre per la Otà Records; la sensazione immediata che si avverte è quella di una profonda preghiera dal respiro ancestrale e avvolgente come l’Africa e – come l’Africa – moderna, evocativa e dal messaggio universale. Il prologo si apre infatti con dei versi Yoruba su un intricato tappeto ritmico. Da una nostra ricerca quasi tutte le tracce risultano essere legate a riti religiosi popolari presenti in tutte quelle culture di matrice africana di cui pure abbiamo parlato: Nene La Kanou è infatti cantato in lingua mandinga da Fanta Cissoko; Yeye Moro è un inno alla figlia di Ochún, dea dell’amore e della femminilità. Babalada è dedicato al dio cubano Obatalá e al suo corrispondente Oxalá del candomblé brasiliano e Light in The Sky è dedicato invece a Yemayá, dea del mare e madre di tutti gli orishas. Interpretato in Wolof, la lingua senegalese, è invece la canzone Mon Yalala (Lui è Dio) dove risaltano strumenti della tradizione africana come balafon, ngon, kora, kalimba e sanza. Why Angá? È infine un toccante omaggio alla memoria del percussionista cubano Miguel Angel Diaz ‘Angà’ (scomparso nel 2006), che collaborò a produzioni e tournèe di Omar Sosa. Con questa ultima e più recente fatica discografica di Sosa siamo certamente di fronte ad un vero, pregnante, messaggio: la coralità come sinonimo di universalità e di fratellanza fra tutte le culture e in particolare fra quelle che possiedono una comune terra originaria. Come un rigoglioso albero (non a caso utilizzato nella grafica per la copertina del disco) che trae linfa dalla terra e sviluppa le sue miriadi di rami, così la terra africana ha donato, per secoli, stimoli e passioni per la creazione di una moltitudine di culture musicali sparse nel mondo, ma tutte ad essa legate. <
Il nostro viaggio musicale sta per concludersi; l’ultimo appuntamento prettamente musicale sarà col grande artista Herbie Hancock, figura tra le più creative e geniali del nostro secolo.