Metal Valley open Air festival seconda edizione
Dove eravamo rimasti?
Dopo un anno sabbatico il Metal Valley open air torna a tingere di nero le valli dell’alta Liguria. Come due anni addietro torniamo a parlare della creatura marchiata Nadir Promotion, dietro la quale ritroviamo l’imponente ombra di Trevor, all’anagrafe Roberto Traverso, voce e anima dei Sadist. Ancora una volta, proprio grazie al suo cittadino illustre, l’area expò di Rossiglione indossa borchie e orrorifiche t-shirt.
L’afa del caldo estivo è blandamente moderata dal vento che attraversa la vallata che, almeno per un giorno, avrà la strampalata sensazione di vivere stranita all’interno di una colonna sonora inusuale. Tra le vie del paese vecchi contadini assaporano il caffè accanto a ragazzi dall’impatto estetico vistoso. Gli sguardi si sprecano divertiti, tra voglia di ombra e headbanging.
All’apertura dei cancelli le prime note che salgono verso il sole sono quelle dei 5 Star grave, Lucky Bastards, Spanking hour per i quali potrei scrivere in maniera indiretta; di loro ahimè solo parole sentite. Infatti il mio viaggio verso il Metal Valley ha risentito di qualche intoppo, costringendomi ad un’entrata attorno alle 14.30. La promessa alle tre band è quella di offrir loro una vetrina sulla nostra rivista, attraverso recensione ed intervista, come indennizzo al mio inusuale ritardo.
Varcati i cancelli, ritrovo sul palco i Nerve interessante quartetto genovese, da cui fuoriesce un death metal venato di sviluppi diversificati, atti a sviluppare partiture tutt’altro che ridondanti. La voce di Fabio e la chitarra di Ermal (su tutti) rimandano ad un diligente lavoro. Un’accuratezza che ritrova poi fulcro nell’accattivante merchandising. La band, pur muovendosi a tratti con un blando impaccio sul palco, mostra un’immensa dose di volontà, voglia ed impatto sonoro, che provoca inevitabilmente un handbanging sotto un palco già gremito da molte anime metalliche, pronte all’ascolto di note nuove.
La corda rimane tesa anche con una delle più piacevoli sorprese del festival: i Cerebrum. La band ateniese offre in questa prima parte di live un concerto assestabile all’interno dell’andatura death, sviluppata attorno a ideali prog e a tratti sperimentali. Il frontman mostra con il capello corto e gli occhiali da vista un incerta figura esile, capace però di sciorinare un growling di grande intensità. Dietro la maglietta dei Grave, ritroviamo tutti gli indizi necessari a definire un lavoro di songwriting e di composizione alle soglie dell’ultratecnico, da cui traspaiono le ombre dei Pestilence e Death. Infatti la vocalità di Apollon Zygomalas sembra a tratti ricordare quella di Chuck Schuldiner, amalgamandosi nella sua esposizione lirica al basso del magnifico Skullkos e alle chitarre di Touras e Papadopulos, che emergono al meglio in brani come Scartter braine Edge Of Parallel Circles , tra stop and go e cambi direzionali molto interessanti.
Durante il cambio palco mi ritrovo a osservare, talvolta con invidia, la sfilata di tatuaggi e magliette che si accalcano sotto il palco all’urlo di richiamo:Siamo Tornati!!!… e vista la performance live, ci si può davvero rammaricare del tempo perduto dagli Antropofagus, fautori di un brutal death metal piuttosto raro in Italia. La band, come di consueto, fedele la nome scelto offre un buon insieme di gore cannibalistico, attraverso l’ottima prestanza vocale di Tya, che si dimena sul palco tra le note del compassato Mike e le pestate dure di Max. Il quartetto offre un live convincente soprattutto in relazione ai brani nuovi e a vecchi cavalli di battaglia come Loving you in decay, che nel suo tuffo passatista offre un ponte ideale all’uscita imminente del nuovo full length.
Girato l’angolo ecco salire sul palcoscenico i Methedras che si mantengono in linea con lo scorrere del tempo che ci porterà a notte agli headliners. La presenza scenica del combo da l’idea di essere saliti di un gradino verso l’alto. La dinamicità, la grinta e la scorrevolezza di note unita a fluidi movimenti, portano il pubblico inizialmente distaccato a rincorrere i passaggi con il classico airguitar. L’aria vichinga di Claudio Facheris si disallinea, con i suoi accenni screaming, al primo Halford attraverso un tentativo ben riuscito di heavy metal convertito al trash prima maniera. Proprio sulle note dei metallers lombardi inizia finalmente il primo tentativo di Pogo. É proprio il vocalist ad istigare allo scontro, addirittura organizzato scenograficamente il pubblico in due schieramenti, che come nei classici film nordland, si affrontano in maniera però cavalleresca e mai troopp brutale. Un gioco però che l’attenta security tende ad apprezzare poco.
Saliamo poi ancor di un grandino con i folcloristici THE AMENTA, quintetto sorprendente, proveniente da Sydney. L’ensamble offre oltre ad un tecnico blackened death metal, un ottimo make up d’impatto. Tralasciando le inquietanti lenti a contatto bianche, ormai troppo legate a Brian Warner, il gruppo si presenta colante di nero petrolio. Macchie stillanti, atte ad ottenebrare una maggiorazione dell lato già inquieto della band. Nonostante gli iniziatici problemi di microfono gli Amentha riescono a definire una scaletta ottimale per conquistare chi tra gli astanti ancora non era a conoscenza delle buone potenzialità di Cain Cresall e soci. Sentori black, ritmiche ossessive, doppia cassa e screaming sofferente valgono già di per se il prezzo di un biglietto dal costo risibile. Sentori cupi e nereggianti si fondono con abilità allo sguardo luciferino di Dan Quinlan, che sembra ricordare le movenze dei General Surgery. Un insieme di musicalità industrial, in cui le chitarre volutamente posizionate su di un piano volumetrico inferiore, donano violenza e sviluppi di ampio respiro, attraverso testi e titoli tanto ermetici quanto protonichilistici.
Nonostante l’ovvia considerazione del fatto che il Metal Valley è ad oggi definibile come tra i più interessanti festival sui generis (e quello targato 2011 è senza dubbio nettamente superiore alla prima edizione) è inevitabile però arrivare all’unico momento sotto tono del festival. Ad alimentare la mia critica sono gli ElvenKing, che fanno l’errore di sentirsi fuori posto e gli Hour of Penance che offrono un live al di sotto delle aspettative.
Gli Elvenking sono stati accolti con un certo scetticismo, a causa della musicalità armonica e di una postura live più vicina al quel mondo glam di Motley Crue, che non a quello del death & gore. Poi l’infelice frase In tutta questa violenza musicale..ci siamo anche noi e siamo qui per suonare con voi fottuto metal ha destato non pochi imbarazzi e ha penalizzato il tecnicismo e una buona tenuta del palco…certo arrivare dopo gli Amentha non deve essere stato facile. All’interno poi della critica più sentita annovero anche gli Hour of Penance per i quali personalmente avevo molta aspettativa, andata delusa da un live anonimo che ha portato con se poche emozioni.
Chiusa la parentesi se ne apre immediatamente una nuova chiamata Skanners storica band di Bolzano che trainata dall’ultimo full lenght, che speriamo di poter recensire al più presto, arriva in prossimità dello Stura per un live perfetto. Un equilibrio tra interazione, relazione e dinamicità, forti di un impatto ancora fresco e convincente come dimostra il talentuoso batterista neppure maggiorenne. Forze fresche per idee brillanti e mature che alimentano il pubblico adorante e coinvolto attraverso inni come Never give up e la conclusiva Hard and pure, che ancora una volta definisce l’incredibile potenza e linearità vocale del frontman, capace di alternare l’old school heavy a risvolti modernisti, tra acuti formidabili e linee di basso perfette.
Mentre il sale il vento e scende lì oscurità ecco salire sul palco la mitologia italiana dei Strana Officina, considerabili senza troppe figure retoriche i Motorhead italiani. La band più in forma che mai offre come di consueto ai suoi tanti fans accorsi, uno sviluppo heavy del rock’n’roll duro e granitico. I primi giochi di luce e fumo accompagnano l’andatura Kilminister di You believe in rock’n’roll per la quale il cantante chiede volume chiamando sotto di se tutta quella parte di nuova generazione che poco sa di questa officina musicale. Tra influssi rock progressive e ballate hardrock arrivano le sentite dediche a (fratelli), tragicamente scomparsi in un incidente stradale quasi 20 anni addietro. A memore ricordo nell’ensamble è presente ormai da molti anni (batterista), figlio di Roberto, capace di dare al pubblico una performance esagerata, in linea con la chitarra di (chitarrista), il quale sotto la bombetta da Milkovabar detta alle nuove generazioni un saggio del perfetto chitarrista rock, per il quale si assiste ad uno show nello show. (nome) si dimena sul palco, sputa in aria, sale sulle casse, simula amplessi con la sua sei corde, corre e si dimena senza mai sbagliare una nota che sia una!
Un live che con brani come Non sei normale eBoggieman porta sul palco sentori di Deep Purple, per unoshow imperdibile e coinvolgente che convince tutti… anche coloro che indossano magliette di Gorgoroth, Napalm Death o Intracranial Butchery.
Arriviamo così alla fase finale del festival. Si cambia rotta decisamente; veleggiando tra le note mefistofeliche dei Belphegor anticipati nella loro uscita da drappi neri che vanno poi a scoprire teschi di caproni un poco kitch e dipinti malefici di stampo chiaramente anticlericale. L’enorme monicker dalle croci rovesciate si muove dietro all’incredibile lavoro in blast beat di Marthyn e alal scontrosità del Serpente, che a diversità di Helmut non rincorre gli sguardi degli astanti. Le note avvolgono ossessivamente il pubblico ammaliato dal corpsepaint tra il black ed il gore. La musica dei neri rituali resa celebre da Kubrick da il via ad una serie di manifesti musicali come Lucifer incestus e la nuova Rise to Fall and Fall to Rise inquieta composizione tinta di quel nero cupo che avvolge la band austrica indispettita dal lancio di acqua sul frontman, che prima di salutare in maniera colorita sputa verso le prime file. Il relazionarsi in punk style non incrina la grande performance di una band che con il proprio sguardo del mondo ha dato addito a molte chiacchiere.
Dopo poi circa 30 minuti ecco il gran finale targato Deicide. La band di Tampa regala la chiusura di un cerchio perfetto grazie ad un impostazione tecnica di altissimo livello, in cui velocità si sposa alla perfezione con la brutalità compositiva e sonorità estreme. Il personaggio principe della serata è senza dubbio lui… Glen Benton che appare sul palco con una flemmatica e sorniona andatura da santone nero. Una maglia corvina, anonima, che rimanda ancora una volta al suo essere che non ha certo necessità di apparire. La sola presenza del vocalist e del suo basso rende l’aria rarefatta. Manca ossigeno osservando le sue dita correre sulla quattro corde mentre il profondissimo growling viaggia su puntate scream attraverso le regole luciferine. Un impatto sonoro superiore alle aspettative che travolge senza mezzi termine una valle pronta ora a riprendere sonno in attesa della terza edizione.