Unboxing Red hot chili peppers
Torniamo alla rubrica Unboxing, questa volta per raccontare gli eccessi Funk Rock di una delle più iconiche band degli ultimi 40 anni: i Red Hot Chili Peppers. Nato ai bordi dei primi anni ’80, il quartetto losangelino ha cavalcato le corpose linee di basso di Flea attraverso 13 album, che, nel tempo, hanno disegnato una band in grado di attraversare i ponti dell’underground, sino ad arrivare al mainstream.
Inserita nel 2012 nella Rock and roll Hall of Fame, la band ha avuto il merito o demerito, scegliete voi, di avere sperimentato, osato e mutato il proprio stile, più e più volte, passando degli spigoli di The Uplift mofo party plan al Pop rock di Unlimited love, passando dallo slap spinto ad uno stile più catchy.
Pertanto, cercando di percorrere a loro lunga storia, anche questa volta tenterò di raccontare la band attraverso dieci brani che possano definire la band di Anthony Kiedis.
La traccia da cui sento di dover partire è l’overture dell’omonimo debut True man don’t kill coyotes. Il brano, ispirato al libro di Dave Thompson, sviluppato metaforicamente attorno al fatto che la virilità non può e non deve essere sinonimo di vessazione e violenza, entra nel mondo underground mediante un video clip straordinario, specchio perfetto della follia espressiva che la band ha da sempre portato sul palco. Le sonorità spigolose, dettate dallo slapping, portano l’attenzione sull’apparenza, l’estetica e l’eccesso. Osservare Flea al basso restituisce, di certo, sorrisi, ma al contempo inizia a segnare il sentiero di una band in cui le linee di basso sembrano essere la base di partenza.
Dopo solamente un anno, l’ensemble californiano torna alle stampe con il funkadelico sound di Freaky Style, prodotto da George Clinton, mostro sacro del P-Funk. Nonostante il periodo (1985) sia inquinato dall’avvicinamento di Kiedis e Slovak all’abuso di droghe, album si presenta come un full lenght straordinariamente surrealista. Le liriche, stralunate ed ermetiche, definisco il fil rouge di un’opera ostica e per certi versi unica, in cui emerge la carnalità di American ghost dance e i quaranta secondi di Lovin’ and touchin’. Però il mio sguardo, sin dal primo ascolto, va, come in allora su Catholic school girls rule, atto di accusa nei confronti della religione cattolica. Il brano, ostentatamente provocatorio, traina l’ascoltatore verso un suono upbeat battente e reiterato, trovando la propria ricercata insania nel video ai limiti della blasfemia.
Nel 1987 il trittico iniziatico trova in the Uplift mofo party plan l’ultimo vertice. L’album inizia a mostrare i prodromi di uno stile più definito. Stilismi Sly Stone (Behind the sun) e anthem generazionali (Fight like a brave) sembrano pronti a ridefinire, affrontare e superare le difficoltà attraverso la straodinaria Me and my friend, i cui versi diretti e sinceri portano in overlay il tema dell’amicizia e del gruppo, qui narrato dal cantato rap di Kiedis.
Da qui viriamo poi verso Mother’s milk e la sua Magic Johnson, omaggio esplicito al giocatore dei Lakers. La traccia, ancora una volta tirata e aspra, torna a parlare del parallelismo tra la musica dei Peppers e la pallacanestro, più volte evidenziata dalla band. Tanto è vero che in un’intervista dell’epoca il frontman fece notare come il gruppo fosse contro egocentrismi, assoli eccessivi e individualismi; il focus è e deve essere sul gruppo, inteso come entità unica, come squadra, “Questa è una lezione che abbiamo imparato da Magic Jonhson e dai Lakers”.
Se già con Mother’s milk la band aveva subito un cambiamento stilistico, complice la scomparsa di Hillel Slovak, è con Blood sugar sex magic che la band guarda ad un nuovo futuro. L’album, considerabile un vero e proprio capolavoro sui generis, porta alla produzione Rick Rubin, deus ex machina di quello che può essere tranquillamente considerato l’apice di una carriera straordinaria. L’album contiene la perfezione stilistica della titletrack, la trainante Give ita way, la follia di Mellowship Slinky in B major, la sprezzante aurea di Naked in the rain, insomma… difficile pensare al brano migliore, ma i dubbi sono pochi, perché Under the bridge ancora oggi rappresenta un marchio di fabbrica dei losangelini. Al di là del mood gentile e avvolgente, la traccia cela in sé un’inquieta confessione sulle tossicodipendenze che hanno spazzato via parte della band.
Dopo un album come Blood sugar sex magic, ripetersi non sembra facile, per di più John Frusciante esce dal gruppo per lasciare la sei corde a Dave Navarro, ancora scosso dallo scioglimento dei Jane’s Addiction. Al timone di produzione però rimane saldo Rick Rubin, preziosa guida che porta la rinnovata band a delineare un sound a tratti più morbido (Coffee Shop), ma sempre folleggiante (Pea). Tra i brani più iconici ritroviamo Warped, granitica e riflessiva, in cui la voce di Kiedis viene a tratti filtrata da effetti sonori che narrano di limiti, paure e fobie, attraverso un songwriting ermetico e diretto, figlio del loro passato.
Con la fine del millennio i Peppers valicano poi i confini dell’underground per entrare a pieno diritto nel mainstream; infatti Californication è stato, a mio avviso, quello che il Black album è stato per i Metallica. Suoni ragionati e meno istintivi e sviluppi non troppo discosti dal pop rock (Scar tissue, Easily, Californication). Tra i brani a disposizione faccio emergere Otherside, traccia impeccabile, oscura e intimista, pronta a toccare temi delicati come l’autolesionismo e i tormenti interiori.
L’entrata nel mainstream ha poi allontanato i fan dediti ai “Pure Peppers”, arrivando a conquistare nuove leve attraverso By the way e il doppio Stadium Arcadium, album che rasentano la sufficienza, ma che non appaiono in grado di sfornare capolavori come Soul to squeeze, traccia uscita dalle fucine del 1995 e tornata nel Greatest hits del 2003.
Nell’ultima decade la band ha, infine, alternato sviluppi perfettibili a eccessiva verve compositiva, in cui non sempre sembra facile ritrovare lo spirito degli albori, tanto è vero che al di là di un’ammiccante Black Summer, piccolo gioiello pop rock, mi appare difficile trovare un decimo tassello se non tra le righe di Dark Necessities, dove i Red Hot mostrano da dove sono partiti…dalla quattro corde di Flea.