Unboxing – Pearl jam
Chi sono i Pearl Jam? Qualcuno di certo là fuori ancora non lo sa, e questa mancanza, probabilmente, è dovuta solo a questioni anagrafiche. Oggettivamente parlando, infatti, mi parrebbe strano sapere che nella fascia 30-60 anni, ci sia ancora qualcuno che non conosca, almeno superficialmente, la band di Seattle. Tanto è vero che, assieme ai Nirvana, Eddie Vedder e soci hanno disegnato i podromi di un nuovo genere, in grado di indebolire altre mode e tendenze in auge in quell’age d’or.
Appare lapalissiano, ma è meglio non dare nulla per scontato: stiamo parlando del Grunge. Il genere “sporco e sudicio” che, pur iniziato durante quegli anni ’80 dominati dall’heavy metal, ha trovato il successo solo nei primissimi anni ’90, proprio grazie a band come Nirvana, Stone temple pilots, Temple of Dog, Alice in chain, Soundgarden e (per l’appunto) Pearl Jam. Prima o poi dedicherò un unboxing a tutte queste realtà, ma oggi, complice l’uscita di Dark Matter, ultima fatica del gruppo, andiamo a ripercorrere i 34 anni di carriera di una band in grado di raccontare emozioni divenute eterne.
Pur lontani dagli influssi Metal Punk che hanno caratterizzato altre band grunge, i PJ hanno definito nel tempo un sentiero fortemente anti commerciale, poi limato con la maturità, arrivando a pubblicare cinque album (alcuni di voi direbbero tre, ne sono certo) di incredibile qualità e successo. Infatti per conoscere i Pearl jam, a mio avviso, vi basterebbe ascoltare integralmente Ten, Vs. e Vitalogy (aggiungendo No code e Yield).
Ma oggi sono qui costretto a estrarre dal loro catalogo solo 10 brani, di cui ben tre appartenenti al debut album. Questa sofferta decisione deriva dal fatto che Ten rappresenta una vera e propria icona del movimento. Un album paragonabile (con le pinze…) a Back in black, Muster of puppet, White Album o Nevermind, album impeccabili, dai quali scegliere un climax appare davvero impossibile.
Pertanto i primi tre consigli per conoscere i Pearl jam sono tutti legati al 1991: Alive, Jeremy e Black
Alive, primo singolo della band, ci invita a elucubrare sull’identità, sulla vita e sulla morte, attraverso uno sguardo disorientato, in cui il dolore si abbraccia a rivelazioni inattese. Il sound, cadenzato e narrativo, offre la particolare vocalità di Vedder, sorretto da una sezione ritmica presente e ben definita.
L’ottima capacità scrittoria del front man è già evidente tra le righe del debutto, attraverso brani come Jeremy, un piccolo capolavoro emozionale, in cui le chitarre di McCready e Gossard definiscono la drammaticità della vicenda ispirata al giovane suicida Jeremy Wade Delle.
https://www.youtube.com/watch?v=MS91knuzoOA&rco=1
A chiudere il trittico iniziale non poteva essere che Black, un manifesto straordinario, un urlo intimista e silente, che definisce un’aurea poetica, onirica e rarefatta, posta attorno al tema della perdita e del dolore persistente, che solo l’amore può provocare. Il brano, melanconico e a tratti disperato, offre sin dal primo ascolto uno spiraglio per osservare da vicino il mondo descritto dalla penna di Vedder, più che mai ispirata da una sensibilità espressiva rara, che ancora oggi definisce molti brani della band.
Uscendo dal mondo di Ten arriviamo poi a Daughter, che per certi versi continua il fil rouge drammaturgico già presente nel precedente album. Infatti, la canzone descrive la fragilità e il dolore di una figlia in lotta con una madre anafettiva; l’impronta semi acustica, peraltro presente anche nella semplice perfezione di Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, si mescola con un bridge in grado di elevare la narrazione verso un apice sonoro che è rimasto intatto nel tempo.
Saltiamo poi nel 1994, data di chiusura di una superlativa trilogia, infatti con l’arrivo di Vitalogy la band conferma (Corduroy) e sperimenta (Bugs) arrivando a pubblicare un album fondamentalmente cupo, melanconico e per certi versi decadente. La setlist offre emozioni prive di confine, in cui emerge l’aurea cinematografica di Nothingman una riuscita sincrasi tra melodica dolcezza e aspra incomunicabilità.
L’arte di Vedder come autore torna poi con un altro centro chiamato No Code, una dichiarazione di intenti, in cui la reiterazione di Smile offre il giusto trampolino per il moto perpetuo della straordinaria Off she goes che, insieme all’impulso aggressivo di Lukin, definisce all’ascolto una band in grado di sagomare un’impronta figlia di un punk mai sopito.
Sullo stesso orizzonte espressivo la band arriva, peraltro con un videoclip in animazione, a narrare Do the evolution, traccia pronta ad affrontare il progresso di una società alla deriva, attraverso un sound grezzo e impolverato, che toglie delicatezza a Yield, forse l’ultimo grande album della band.
Ma degli anni zero non è tutto da dimenticare, anche se la maturità ha riservato ben poche sorprese. Due album non troppo riusciti (Riot Act e Gigaton), e alcuni full lenght più che interessanti, ma privi di quel mordente degli esordi. Da questo periodo la miglior uscita, ancora oggi, a distanza di tempo, mi appare essere Binaural, ma la miglior composizione è probabilmente Parachutes che, insieme alla più recente Sirens, confermano un’ensemble ispirato e narrativo.
A questo punto dell’articolo mi fermo, guardo indietro e torno negli anni ’90 per la B-side di Jeremy: Yellow ledbetter, una sentita e antipatriotica traccia in cui la sei corde, evocativa e strappata, si accompagna a toniche cadenzate che spesso appaiono anche in presa live.
A chiudere questo unboxing, infine, vorrei dare credito all’ultimo singolo della band, anticipazione di un album che torna al passato, arricchito dalla maturità di oggi. Dark Matter, infatti, gioca con riuscite distorsione stonerizzanti, cambi direttivi e spigoli armonici, qui cuciti attorno al desiderio di dare a fan e neofiti un nuovo sguardo verso una discografia piuttosto vasta da cui attingere.
Da qui, pertanto, potete partire… per creare il vostro sentiero.