Cecilia Sanchietti – Colours
Quinto album!
Chi conosce la batterista romana (consiglio per gli altri: fatelo!) sa già di una carriera inizata discograficamente da poco, ma sa già anche di un ascolto che porta ogni volta in ambientazioni diverse, col gusto di una compositrice che cerca di non reiterare e lascia così alla fine di ogni progetto la curiosità per l’ascoltatore su quel che succederà al prossimo episodio. E’ una bella sensazione e speriamo che prosegua così.
La premessa serve a introdurre un’evidenza: qui il viaggio continua. Non per esotismi o cartoline sonore varie, ma perché la mentalità rimane aperta e chi fruisce di questi suoni può godere di nuova musicalità anziché semplicemente di un nuovo album.
Non è poco.
Vi stupirò: è un progetto dedicato ai colori. A suonarlo c’è un quintetto che sta bene assieme:
Cecilia Sanchietti – Batteria e composizioni
Alberto Pinton Sax Tenore, clarinetto e clarinetto basso, flauto
Lutte Berg Chitarra elettrica
Adam Forkelid Piano
Par- Ola Landin/Mauritz Agnas Contrabbasso
I brani hanno per certi versi l’essenza di moltissimo jazz dentro: a restare in superficie diciamo tema – improvvisazioni – eventuali variazioni – tema. C’è però altro. Qui la maturità crescente della titolare ha portato ad un mix molto efficace tra le composizioni e chi le suona, con timbri e scelte esecutive che riescono a presentarsi a servizio del contenuto musicale.
Ci si potrebbe vedere una sorta di nuovo album ECM con la sede che, restando in Europa, si sposta un po’ più a sud. L’atmosfera è leggermente meno meditativa, meno asettica, ma si mantiene quella centralità del suono, della nota pensata, dell’ambientazione a dare forma per ospitare un contenuto in modo che questo arrivi più chiaro.
Cecilia ci mette il drumming di chi ovviamente sa dove portare il brano; sa però farlo da leader che non sovrasta ma supporta molto nel veicolare il messaggio, con un utilizzo sapiente, emozionale e consapevole dei piatti, a ricordare un po’ certi… colori di Jon Christensen, qui con maggior spazio al rullante e quindi con una presenza anche più materica.
Fiati e piano sembrano voler definire armonia e melodia nei perimetri ma non si preoccupano di delimitar confini col filo spinato; lasciano linee e sfondi un po’ aperti per far passare aria, non blindano i brani.
A Lutte Berg, da ospite quando presente, sembra invece che si intenda lasciare uno spazio differente, in diagonale tra questi paesaggi disegnati. E’ il tratto di pennello eccentrico, la riverberazione che, pur assonante, guarda fuori e traccia un contrappunto simbolico per visioni e suggestioni.
Certe cose si possono dire con precisione più chirurgica solo dopo moltissimi ascolti, ma intanto la sensazione è quella di un album in cui la pensata razionale, naturalmente sempre necessaria e quindi presente com’è giusto, lascia luce davanti, regala al flusso la possibilità di scorrere e libera anche un po’ di più l’ascolto. Queste sono situazioni musicali di confine e per certi versi sono delicate, perché, a far jazz senza i soliti standard, aperto in avanti ma con un’intenzione anche melodica nitida, più di qualcuno ha sfruttato la discesa sfornando easy listening che alla fine ignora l’anima quanto un lavoro di apatica complessità. Qui cantabile non significa banale e l’esecuzione ha una determinazione gestita ma serena. Se ne guadagna tanto in piacevolezza.
Si è capito che per lo scrivente questo è un bel lavoro?