Nichelodeon

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Laboratorio chimico dedito all’artigianato sonoro/visivo/performativo

La banalità non è di casa con i Nichelodeon, ensemble milanese composta da 7 elementi 7, dediti ad una visione musicale tout court. Non esiste una linea retta da seguire, non troverete ciò che potreste ipotizzare, perché entrare nel mondo de Il gioco del silenzio vi troverete di fronte ad un’avventura carrolliana che non può avere che le sembianze di una turbolenza artistica illimitata e anarcoide, ma (attenzione) non intesa come disordine gratuito, ma più intesa in maniera Preudhoniana.

L’essenza compositiva è proprio basata su sviluppi liberi senza le consuete forme di potere che l’uomo ha sulla musica o la musica sull’uomo; una realtà sognate, talvolta utopica e surreale, proprio come la pittorica cover art. Il silenzio dei Nickelodeon è talvolta appesantito però dai tempi e dai vuoti di una vita stranita descritta da un poetico songwriting.

Appare però ovvio che il gruppo, non è, e non sarà una band “per tutti”, ma solo per coloro che ancora riescono a vivere il contatto con l’arte in maniera critica e disincantata. L’ascolto tutt’altro che facile appare una sorta di sfida tra epifanie e metodicità ardite, che convogliano all’interno di 12 tracce di un disco forse troppo esteso per essere ragionato in una realtà che viaggia troppo rapida.

Il full lenght, a differenza di ciò che ci si può attendere, ha inizio attraverso un’introduzione violenta verso l’onirica dimensione di Fame, popolata da un rumorismo calibrato, interposto tra note conosciute e noise ambiguo. I tasti dinoccolati di Andrea Illuminati si fondono ad una vocalità, che per certi versi sembra ricordare quella di Di Leo. Ci si rende poi immediatamente conto del fatto che brani come Ombre cinesi e Lana di vetro risultano in piena conformità di intenti, inseguitrici di una mescolanza di generi, assolutamente slegata da ogni schema, spesso assestabile tra nobili e al contempo ruspanti scheletri sonori. D’altra parte sembra vero il fatto che talvolta una sorta di snobistica ed altezzosa struttura espositiva finisca per oscurare buone idee, che in parte sfumano negli eccessivi 80 minuti del disco. Brani come Fiaba, in cui Carola Caruso dona la sua vocalità, e Claustrofilia, potrebbero essere definite dai detrattori come affette da eccessiva pretenziosità. A mio avviso la vera verità, come spesso accade sta nella mezza via, infatti la concettualità spinta della band viene mitigata da intarsi legati alla tradizione italica (Il giardino degli altri), che in maniera ragionata, ma nascostamente umile, ci riporta alle radici musicali nostrane tra baritonali linee di cantato.

Un disco che è nato per essere condiviso, commentato e ascoltato attraverso le sue inquietudini, le sue malinconie e le sue cupezze che volenti o nolenti stimolano la nostra parte artistica…