Storia di una … (The) Band – Parte settima
The brown album rappresenta l’apice della carriera di The Band anche se questo appare chiaro solo in retrospettiva perché alla fine dei ’60 e agli inizi dei ’70 l’unica cosa che pare chiara è che The Band è uno dei più influenti gruppi sulla scena: la loro partecipazione – con o senza Bob Dylan – ai maggiori festival di quegli anni, da Woodstock all’Isola di Wight, è una presenza necessaria.
Necessaria ma – per certi versi – inosservata: è arrivato il momento di tirare in ballo Albert Grossman, il manager che The Band ha ereditato da Dylan. Ad Albert Grossman vanno infatti addebitate le decisioni che – dopo il successo dei primi due album – tarparono le ali a The Band.
The Band – come detto – fu presente a Woodstock e all’Isola di Wight ma non ha mai goduto i frutti di queste partecipazioni in termini di popolarità e vendite perché Grossman – ad esempio – negò agli organizzatori di Woodstock il diritto di includere lo show del gruppo nel film – successo planetario – che fu fatto di Woodstock. Altro danno procurato dal manager – ossessionato da un’idea dell’artista legata al divismo inaccessibile dei decenni passati – fu rifiutare che The Band scrivesse la colonna sonora per Zabriskie Point di Antonioni prima e per Easy Rider di Dennis Hopper poi: se queste tre operazioni non fossero state bloccate da Grossman la storia che state leggendo sarebbe molto diversa.
Management a parte, qualcosa si stava comunque incrinando: la frattura diverrà evidente però solo quando The Band tornerà in studio e darà alla luce il terzo album, Stage Fright.
Stage Fright – la paura del palcoscenico – è titolo che evoca vari riferimenti: l’amico Dylan ormai lontano dalle scene, ma soprattutto la crisi di Robbie a Winterland (vedi capitolo precedente n.d.A.) sono i principali, ma il tema più affascinante è quello sviluppato da Greil Marcus.
Agli occhi di questo padre della critica musicale la paura in questione è quella di The Band una volta abbandonata la quiete del rifugio di Woodstock: paura del pubblico, degli addetti ai lavori, dei manager musicali, in una parola paura di abbandonare quel mondo sospeso nel tempo creato dalla loro musica. L’immagine è suggestiva ma lontana dalla realtà: la presenza di Dylan e della Band a Woodstock aveva trasformato la cittadina – montana sì, ma poco distante da New York – in meta di pellegrinaggio e/o di residenza per ogni hippy o aspirante musicista/artista del paese, con ovvio seguito di droghe, spacciatori e altri figuri più o meno loschi. Proprio nell’idillio di Woodstock l’eroina diviene parte delle vite di Levon, Rick e Richard.
Ascoltato oggi Stagefright è un grande album, un disco che il 99% degli artisti in circolazione oggi come allora neanche si sogna di arrivare a creare, eppure è indiscutibilmente inferiore alla perfezione del brown album ed è privo del vigore rivoluzionario di Music From Big Pink; compare nei testi una vena autobiografica – assai banale in All la glory, scritta da Robbie per la sua primogenita – che comunque dà vita a due momenti che diverranno dei classici del repertorio dal vivo di The Band: The shape I’m in – scritta da Robbie per Richard Manuel – e Stage fright.
Il vero passo falso però arriva con il quarto lavoro in studio: Cahoots è un disastro a partire dal titolo – che richiama l’espressione in cahoots simile all’italiano in combutta – un titolo che vorrebbe confermare l’unità di gruppo e d’intenti di The Band ma questa ambizione si sgretola all’ascolto del disco. The Band certo è ormai un grande nome così anche le foto che accompagnano l’album meritano una firma alla moda: niente più Elliott Landy e spazio a Richard Avedon. Ascoltato oggi Cahoots mostra momenti pregevoli: il vero difetto è l’evidente approssimazione del lavoro, l’alto artigianato degli album precedenti è scomparso, le buoni canzoni non mancano – Life is a carnival e The river Hymn su tutte – ma sembrano dei demo. Restano impressi i momenti imbarazzanti come 4% Pantomime cantata in duetto da Richard Manuel con il suo amico e ospite Van Morrison, pensate un po’: due ubriaconi dall’ugola d’oro discettano sui pregi di una celebre marca di whiskey e sul 4% di contenuto alcoolico che differenzia l’etichetta rossa da quella nera…
Cosa era successo a The Band?
A sentire Levon Helm il problema di The Band era di soldi: i diritti d’autore finiscono tutti nelle tasche di Robertson mentre gli altri quattro non ricevono nessuna ricompensa concreta per il grande lavoro creativo svolto in studio. John Simon – produttore dei primi album di The Band: “secondo tradizione chi scrive il testo e gli accordi è l’autore della canzone, il resto è arrangiamento, è vero che a cavallo dei ’70 emerse la tendenza a riconoscere come autore chi contribuiva al risultato finale, ma Robbie Robertson applicando il vecchio metodo non ha rubato niente a nessuno”.
I diritti d’autore sono il vero pane – oddio, forse meglio dire caviale – del settore musicale, Rick Danko: “sono cose che può capire solo che è diventato ricco dalla sera al mattino, avevo scritto “This Wheel’s on fire” insieme a Dylan, non era stato un singolo di successo, ma diversi artisti ne avevano fatto una cover così mi vidi arrivare centinaia di migliaia di dollari e , per capirsi, ero il co-autore: quella montagna di soldi era solo la metà del guadagno!”
A sentire Robbie Robertson il problema di The Band era la noia: nessuno era più interessato alla musica, Robbie era interessato a sperimentare nuove forme musicali ma sapeva che forse solo Garth l’avrebbe seguito, così il lavoro in studio – con il songwriting ormai del tutto sulle spalle di Robbie e il contributo svogliato degli altri – non poteva che essere deludente.
C’è del vero sia nell’analisi di Robbie che in quella di Levon ma l’operato di Albert Grossman di cui sopra certo esercitò un’influenza considerevole sul destino di The Band.