Ramones – Ramones (1976)
Continuiamo imperterriti la nostra carrellata di Dischi da Isola Deserta iniziata, ormai, da qualche anno.
Questa volta parliamo di un tipo di musica che entrò di prepotenza nella storia del Rock, vale a dire il Punk. Chi fece da apripista per questa ondata di novità, a partire dalla seconda parte degli anni ’70, sono i Ramones. Questi quattro ragazzi newyorkesi riuscirono a sintetizzare un movimento che aveva le sue radici negli anni ’60, grazie a gruppi garage rock – dal suono aggressivo, sporco e dai ritmi indiavolati – che potremmo definire veri e propri precursori come: MC5, Wailers, Kingsmen, ma soprattutto i Stooges di Iggy Pop. Anche lo stesso esordio di Patti Smith con Horses del 1975 è da considerare in qualche modo nel medesimo solco, pur con qualche debito distinguo, vista la sua inimitabile vena poetica.
La vera svolta del Punk arrivò, come detto, con i Ramones quando nel 1976 pubblicarono il loro album di esordio omonimo utilizzando diverse armi, a partire dal loro look stradaiolo: chiodo di pelle nera, jeans strappati e capelli tanto lunghi da non riuscire, in alcuni casi, a distinguere i loro connotati (leggasi Joey Ramone, carismatico cantante, sempre coi suoi singolari occhiali da sole sul viso). La copertina, con la foto in bianco e nero dei membri della band spalle al muro e con le facce pressoché inespressive, resterà nell’immaginario collettivo come una vera e propria icona. Anche il vezzo di essersi dati tutti lo stesso cognome d’arte Ramone (pseudonimo usato da Paul McCartney per registrarsi in anonimato negli hotel), come se fossero fratelli, contribuì alla nascita del mito.
Per quanto riguarda la musica, invece, il loro criterio compositivo principale ridusse tutto all’essenziale così che, ad esempio, i 14 brani (di cui praticamente nessuna ballata) che compongono la track list, durano tutti meno di 3 minuti. Riff elettrici senza tregua e senza fronzoli, assalti di batteria frenetici, nonché delle melodie con ganci semplici, rappresentano il mix perfetto per impostare la loro piccola rivoluzione. In fondo per loro si trattava di semplificare il rock, in netto contrasto con la cultura hippie di fine anni ’60 che aveva puntato sulla psichedelia e le sue lunghe session strumentali piene di assoli, molto spesso improvvisati (si pensi ad esempio ai Grateful Dead). Il loro pubblico di riferimento sono i giovani, gli adolescenti, ma i testi qui non fanno riferimento alla politica, come avverrà invece per i Clash o i Sex Pistols, in Inghilterra, l’anno successivo. L’opposizione ad ogni tipo di moda o conformismo resta, invece, comune a tutto il Punk.
Fra i pezzi principali dell’album c’è senza dubbio l’iniziale e trascinante Blitzrieg Bop con il suo intro di 20 secondi che funge praticamente da manifesto, e quell’ormai celebre urlo di Joey: “Hey Ho, Let’s go!”. L’indiavolata Judy is a punk passerà alla storia anche perché utilizza per la prima volta il nome di questo genere musicale, mentre la più calma (se così si può dire), I wanna be your boyfriend è invece fra le più radiofoniche. Let’s dance ha una carica fuori dal comune, proprio come lo scatenato pezzo finale Today your love, tomorrow the world che chiude alla grande questo importantissimo disco. In verità la critica di allora non fu particolarmente benevola (salvo poche eccezioni) e, ignorato dalle radio che contavano, non riuscì a scalare le classifiche. In effetti, ascoltarlo per la prima volta oggi ad alcuni potrebbe forse sembrare quasi noioso, vista l’indubbia omogeneità del sound quasi primitivo voluto dai suoi protagonisti, ma in realtà resta l’imprescindibile avanguardia da conoscere per chi voglia provare a entrare nella cultura Punk.
La sua fiamma si espanderà presto influenzando stili ancora più potenti (Hardcore), ma a livello di visibilità il Punk non riuscirà a bruciare più con la stessa intensità delle origini. Di tanto in tanto, nelle decadi successive, troverà modo di riaccendersi nel cuore e nelle chitarre di altre generazioni di musicisti che vi faranno diretto riferimento (si pensi al grande successo dei Green Day e in parte dei Blink -182) o lo useranno come base per evolvere in qualcosa di molto più viscerale e introspettivo (il Grunge della zona di Seattle). Tutti modi di riscrivere lo stesso folgorante spartito.