Urban fabula – Movin’
Movin’ – Premessa?
Questa recensione dell’album degli Urban Fabula potrebbe cominciare così: oh, un bell’album! Fusion, jazz-rock, chiamatelo un po’ come volete ma… Ascoltabile con gran godimento a più livelli di profondità, godibilissimo ma mica facile… Però anche col piccolo lusso di saper proporre soluzioni semplici, però pure un…
No, così non ne usciamo.
Entriamone.
Un brano per volta. Tanto per il resto, per saper di loro cose che è inutile ripetervi qui, c’è il loro sito ufficiale.
L’apertura è un curioso mix di influenze e buone idee che mescola sapori mediterranei e latini, atmosfere elegiache da jazz nordico e speziatura mediorientale. Che si voglia far sul serio senza per questo diventare cervellotici viene confermato con Circle, un esempio di come la cura per la melodia e la riconoscibilità armonica non debbano per forza andare a sbattere contro la banalità. Non bastasse, viene anche ribadito il gusto di non fermarsi alla prima idea implementativa di un brano, allargando lo spettro e creando l’occasione buona per farlo, in modo che non arrivi all’orecchio una spezzatura ma si resti sulla speziatura di cui sopra.
Ancora avanti: pulsione ritmica e giochi ipnotici di ripetizioni e piccole variazioni gestite con bel tocco pianistico che piaceranno, per forma e contenuto, a chi si diverta ascoltando quel fenomeno di Hiromi. Subito però una parte narrata con splendido accompagnamento al piano certifica che non ci si vuole fermare mai al punto di partenza.
Non ve lo racconto tutto a questo livello altrimenti siamo allo spoileraggio musicale in luogo di una recensione, ma c’è modo di apprezzare stile, tecnica e sensibilità dei nostri anche tenendosi più “nei generi”, attraversando una ballad ma anche un funky jazz molto a la Hancock (che naturalmente cambia ambientazione nel suo procedere, tanto per non perdere l’abitudine al non averne, di abitudine), paesaggi sonori latini ma stavolta nel senso americano del termine (qui torna in mente il Jarrett che faceva battere il piede in U dance), un passaggio veloce per l’Africa, atmosfere care a chi l’est lo apprezzi sia geograficamente sia storicamente come maiuscolo acronimo musicale (questa arriva dopo ma è carina, dài).
Difetti? Per fortuna sì, ché servono per migliorare, e per fortuna riguardano la coda, che è l’unico brano non autografo. In questo omaggio non richiesto a Sting (davvero non occorreva integrare un lavoro di gran qualità con una cover) c’è essenzialmente quel che con gioia manca in tutto il lavoro: un arrancare involuto lungo la costrizione che è lo stare appresso ad un capolavoro pop non sapendo come renderlo diverso ma dovendo farlo ad ogni costo, col risultato di finire incastrati dentro armonie freddamente sghembe, un incedere che mai diventa coinvolgere, un esercizio di stile (che già è in sé discutibile come concetto) che non riesce affatto e risulta inutile poiché di stile se n’è sentito già in tutto l’album.
Chiudete l’ascolto a un pezzo dalla fine e avrete tra le dita un gioiellino!
Bravi. Ah, non si fosse capito: suonano molto bene e non se la tirano con l’ipertecnica. Altro puntone a favore.