Storia del Jazz – Capitolo 7 – Randy Weston
L’Africa è il passato, il presente, il futuro
Con queste parole Randy Weston ama ricordare suo padre – panamense – la prima persona che gli abbia donato, fin dall’inizio della sua vita, il grande amore per quel continente da cui egli ha sempre tratto la linfa ispiratrice di quasi tutti i suoi lavori musicali.
Sebbene nato a New York nel 1926, Weston non ha mai smesso di orientare i suoi interessi artistici verso il Continente Nero e le sue tradizioni musicali. Luigi Onori nota a questo proposito l’atteggiamento con cui il pianista americano si pone nei confronti del patrimonio musicale africano:
La sua musica ha affrontato il rapporto tra la cultura afroamericana e la matrice africana intesa non in chiave mitica-mistica – come ha fatto John Coltrane – né esclusivamente politica, alla Archie Sheep. Il pianista pone l’Africa e le musiche nere al centro della sua riflessione e produzione fin dai primi anni ’50 e, nel decennio successivo, vivrà direttamente l’esperienza della vita nel Continente Nero, dal 1968 al ’72: si stabilirà infatti a Tangeri in Marocco.
Del resto, non dimentichiamo che Weston era un convinto assertore del “ritorno in Africa” di garveyana memoria, soprattutto perché era assolutamente contrario al cosiddetto american way of life.
Una ricerca dunque condotta con saggezza e dedizione, unita ad una formazione artistica invidiabile anche per le conoscenze da lui coltivate (frequentava regolarmente la casa di Thelonious Monk ed era cugino, niente meno che, di Winton Kelly!) fanno di Weston un musicista a tutto tondo, perfettamente inserito nel contesto jazzistico in cui voleva specializzarsi. Si è d’accordo nel riconoscere almeno quattro fasi nella complessa attività di pianista e compositore di Weston: la prima è quella che caratterizza gli anni tra il ’54 e il ’59; il musicista, in questi anni, negli Stati Uniti, lavora soprattutto addentrandosi nell’infinita ricerca espressiva sui tempi dispari – coadiuvato in questo da batteristi quali Max Roach e Art Blakey-, pur mantenendo viva la sua formazione bop.
Esiste un’incisione del ’56, The modern art of jazz by Randy Weston – per la DAWN- in cui si può ascoltare il pianista cimentato in brani originali, nonché noti standard dell’epoca, come Don’t blame me, o How high the moon; lo stile è piacevole e brillante, ma, certo, siamo lontani dai traguardi artistici che egli maturerà in seguito. La traccia che apre l’album e che è firmata dallo stesso piansita, Loose wig, invece conferma l’attenzione di Weston per figurazioni ritmiche elaborate e iterate lungo il corso dell’esecuzione. Quella che segue è la linea che si sente fin dall’inizio:
La seconda fase è quella già africana, dal ’60 al ’72. A questo periodo si ascrive quello che è considerabile il suo capolavoro, Uhuru Afrika. Anche il suo pianismo risente di questa ricerca quasi “etnomusicologica” che egli fa delle profonde radici africane. Come vedremo parlando di uno suo disco in piano solo (R. W. meets himself) il suo stile ricorda esplicitamente quello dei tamburi maestri dei complessi musicali centroafricani, creando vere e proprie “orge di ritmo”.
Su questa monumentale suite potremmo discorrere per ore, data la quantità di spunti anche extramusicali in essa contenuti; essa si inserisce, a buon diritto, nel filone delle jazz suites, di cui fanno certamente parte Black, brown and beidge, di cui abbiamo già parlato, Freedom now suite di Max Roach, Africa, di Coltrane (di cui pure si è già discusso). Malgrado l’enorme difficoltà di recuperare un’incisione di questo materiale (a chi scrive ne risulta una sola, in triplice cofanetto edito dalla Mosaic Records nel 2003) essa costituisce un imprescindibile documento sonoro dell’impegno politico degli afroamericani in quegli anni. Anch’essa è divisa in più movimenti: Uhuru Kwanza, African lady, Bantu, Kucheza blues; tra gli altri, partecipano a queste registrazioni artisti del calibro di Clark Terry, Freddy Hubbard, Max Roach. L’incandescente sonorità dei ritmi africani è realizzato appieno attraverso il contributo delle poliritmiche percussioni di Candido, Roach, Olatunij e Armando Peraza. C’è anche una voce narrante, quella del cantante del Tanganica Sanga Tuntemeke che guida un coro che celebra “il soffio della libertà che porta fuori dalla notte di ieri”. Il testo è in parte in inglese e in parte in lingua Swaili. Da un’intervista su Musica jazz di alcuni anni fa è proprio Weston a spiegare il senso dei quattro tempi:
A Langston Hughes chiesi di scrivere un inno di libertà. Il primo movimento parlava di “freedom first”. Il secondo era dedicato alle donne nere che hanno mostrato una grande forza nel resistere alle traversie e alle sofferenze della diaspora nera. Il terzo movimento è un ritratto del popolo africano; l’ultimo, racconta che un giorno saremo tutti liberi e amici.
La terza fase, che inizia nel 1972 e dura fino alla fine del decennio, assume, quale cifra stilistica, il definitivo perfezionamento del suo approccio strumentale:
Il suo stile appare nella nudità del solo caratterizzato da vari fattori: nettezza e propulsività nelle linee di basso; capacità di far sussurrare lo strumento, oppure di farlo suonare come un’intera orchestra; uso compositivo dei silenzi, dello spazio, della dialettica tensione-distensione; sensibilità ritmica da batterista e dimensione generale parlante-percussiva; uso privilegiato dei tempi medio-lenti. Il tutto in una cornice di composta, maestosa eleganza. (Luigi Onori)
Non si può che condividere tale giudizio lusinghiero nei confronti di questo artista ingiustamente poco noto al grande pubblico. Non a caso vorremmo soffermarci su un suo disco in piano solo registrato a Milano nel 1976, Randy Weston meets himself, PRODUTTORI ASSOCIATI. Nelle note di copertina, curate da Franco Fayenz leggiamo:
Weston, da qualche anno, ama suonare da solo, e ha ragione. E’ difficile trovare collaboratori validi per quello che fa […]. La sua non è una musica facile. Invano cercheremmo in lui l’epidermica suggestione di melodie iterate e di ritmi semplici e ostinati. In Weston la melodia anche dolce, anche cantabile, è subito sostituita dalla costruzione, dalla ricerca tenace e continua e l’humus africano è richiamato e irradiato all’interno della composizione come materia informante che aderisce con esattezza alla trama nella successione degli attimi.
E così, il primo brano, dedicato al cantante tanganicano di Uhuru Afrika, Portrait of Tuntemeke, è interamente costruito su una linea ritmica che apre il pezzo e affiora più volte come un’idea fissa che sostiene tutto lo sviluppo improvvisativo
Come vediamo, si tratta anche di un insolito ritmo ternario. Le frasi sono costruite su un impianto armonico realizzato con intervalli di quarte e quinte giuste. Compaiono altre dediche ad altrettanti personaggi importanti per il pianista: a Monk (Monk steps), a Benny Golson (Out of the past) al cantante egiziano Om-Kel-Thoumt (Ode to Om-Kel-Thoumt). Three Pyramids and the Sphinx è ispirata alle misteriose pietre dell’Antico Egitto. Per Buena cosecha ecco cosa si legge nelle note al disco: <
La fase infine più recente (rappresentata dale registrazioni effettuate tra il 1987 e l’89 e che segnano un tragitto ancora attivo per Weston) si distingue per un nuovo recupero di alcuni standard prettamente afroamericani, come alcuni temi di Ellington e dell’immancabile e amatissimo Monk. <
Da vero artista che da sempre ha sentito tutta la forza della musica africana in sé, soleva dire:
per me il blues è pura musica africana, forse la prima musica del pianeta. […] Il mio primo interesse è stato suonare blues, perché esso è la voce della gente afroamericana negli Stati Uniti. Ho scritto molti blues perché il blues è l’Africa. Per me è la Madre Africa che non è mai morta>>.
Ci piace chiudere proprio con quello che è il messaggio di tutta l’opera di Randy Weston e sembra essere anche il monito del successivo musicista, Abdullah Ibrahim: <.