Storia del Jazz – Approfondimenti. Le origini del blues.
Sono salita sulla montagna più in alto di quanto una ragazza possa resistere
e ho guardato la macchina che portava via il mio uomo
perciò mi sono venuti questi blues del salice piangente
(Weeping willow blues)
Fin da quando il jazz ha fatto la sua comparsa nel mondo non è mai mancato il desiderio di scoprire le remote origini di una musica così innovativa e affascinante; così diversa, nell’approccio e nel concetto stesso di esecuzione con la musica “colta”, ad esempio. Da sempre si è d’accordo nel riconoscere l’ancestrale legame tra il jazz (e la sua anima più “nera”, il blues) con la Madre Africa. A questo proposito si sono creati anche grossolani equivoci o, più spesso, semplici fraintendimenti tra i primi critici che si occuparono dell’argomento (soprattutto se bianchi e perciò poco usi ad un’obiettività storiografica fondamentale per un tale studio). Senza entrare nel merito, che richiederebbe una più ampia digressione analitica, citiamo le più tradizionali teorie di Sargeant, Daucer ecc. in accordo nel condividere l’origine del blues a partire da una scala preesistente (!?), la cosiddetta eptafonica equalizzata, conosciuta come scala africana, che presenta la terza “neutra” (derivante dalla musica araba). La contestabilità di questa teoria nasce dal fatto che non è possibile pensare ad una qualsiasi musica, partendo da un modello teorico precostituito (in questo caso appunto la scala), perché da sempre, nella storia della musica, è la prassi che è a priori di ogni forma di inquadratura analitica (pensiamo alla definizione di Forma-sonata, nella musica classica, che è un concetto certamente a posteriori delle composizioni che con essa si identificano).
Sentendo perciò la necessità, ancora oggi, di fare chiarezza sulle precise derivazioni del blues dal Continente Nero, Gerhard Kubik concede una decisiva svolta nella ricerca della scala primordiale blues, partendo da attente ricerche sul campo e basandosi sulla teoria della divisione in centesimi del semitono, teorizzata in precedenza da Ellis.
Es. 1
Kubik, innanzi tutto sottolinea che l’area di origine del blues non è la costa occidentale dell’Africa centrale (area da cui derivano invece i ritmi caraibici ad esempio), bensì una zona più a Nord della suddetta e più nell’interno del continente. Ciò è spiegabile anche col fatto che dalle colonie della costa venivano deportati gli schiavi per le terre dell’America centrale, mentre dall’entroterra provenivano gli uomini destinati al Sud degli Stati Uniti.
In quella zona sub-sahariana infatti ritroviamo l’esistenza della tradizione dei cantori con liuto (i cosiddetti griots), che ricordano più da vicino i primi cantanti blues che solevano accompagnarsi, guarda caso, con la chitarra. In questa vasta superficie Kubik identifica nella tradizione musicale della tribù dei Kutin la radice essenziale per una pregnante derivazione della scala blues. Questa etnia è sviluppata più precisamente nel Nord-Est della Nigeria; la sua musica è caratterizzata da canti accompagnati dal suono di campanelli opportunamente accordati sui seguenti intervalli melodici:
Es.2
A questo punto, lo studioso afferma che sono di rilevante importanza le scoperte parallelamente effettuate dall’antropologia e dalla linguistica: tali discipline hanno messo in luce che la lingua di questo popolo (come di molti altri popoli africani) è tonale, basata cioè su una pregnanza semantica che si diversifica a seconda dell’intonazione. Nel caso specifico si è scoperto esistere ben tre aree tonali: una bassa, una media e una alta.
Es. 3
Tali distinzioni tonali spiegano gli intervalli sonori utilizzati dai cantori Kutin:
Es. 4
Ora, se applichiamo allo schema di cui parla Ellis – partendo dal 4° fino al 9° parziale armonico – la scala ottenuta facendo seguire gli intervalli femminili a quelli maschili una quarta sopra, abbiamo la seguente sovrapposizione modulare (Tale trasporto è necessario per avere la medesima estensione dell’uomo e della donna):
Es. 5
Come possiamo agevolmente notare, se disponiamo in ordine crescente tali intervalli vedremo comparire una scala completa che presenta gli intervalli-chiave della ben nota scala “blues” con la terza minore (mi bemolle a 267 cents) e la terza maggiore (mi naturale a 386 cents) che identificano esplicitamente l’area delle blue notes. Come notiamo dai cents poi riusciamo anche ad intuire che questi due suoni sono ottenuti da un’intonazione rispettivamente calante e crescente rispetto alla terza minore (sempre il mi bemolle) fissata dal sistema temperato occidentale, che infatti misura 300 cents esatti.
Es. 6
Da queste teorizzazioni si arriva a spiegare come il blues abbia come sostrato armonico una progressione di accordi in qualità di dominante (I°7; IV°7; V°7) e come anche il primo accordo, pur presentandosi in questa qualità, sia sentito come perno fondamentale della costruzione armonica e non come accordo di risoluzione, come è invece avvertito dalla sensibilità occidentale.
Deduciamo dunque come sia sempre più improprio costruire impalcature teoriche che abbiano una qualche velleità scientifica, partendo dall’assunto, del tutto “occidentale”, che il blues e, più in generale, il jazz possa essere decodificato, nelle sue peculiarità, partendo da presupposti che non gli si confanno. Il jazz è musica audiotattile (cfr. Caporaletti, 2005) e va perciò studiata con relativo approccio, riconoscendo cioè quale mezzo ideale per una chiara delimitazione dei caratteri di questa musica, il medium di registrazione-riproduzione fonografica e non quello visivo-notazionale.
PAOLO BERNARDI
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Gerhard Kubik, Presenza della musica africana nel jazz, in Nattiez-Baroni-Dalmonte, Enciclopedia della musica, Torino, Einaudi, vol.1, pp. 1064-1101, 2001
Vincenzo Caporaletti, I processi improvvisativi nella musica, LIM, Lucca, 2005
Vincenzo Caporaletti, Esperienze di analisi del jazz, LIM, Lucca, 2008
Alan Merriam, Antropologia della musica, Sellerio, Palermo, 1990
Curt Sachs, Le sorgenti della musica, Bollati Boringhieri, Torino, 1991
AAVV, Grammatica della musica etnica, Bulzoni, Roma, 1991
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967