Storia del Jazz – Capitolo 3 – Duke Ellington
Per ciò che riguarda la storia musicale di Ellington, possiamo dire che la sua fu, almeno all’inizio della carriera, una strada percorsa paradossalmente e pericolosamente al contrario da quella che ci si aspetterebbe da un artista nero, per di più colto ed emancipato come lui. Il “Duca” infatti cominciò a presentare i suoi primi lavori (che ben presto diverranno capo-lavori!) con forti ascendenze africane proprio in un locale rinomato di Harlem: il Cotton Club, dove l’accesso alla clientela nera era rigorosamente vietato ed era invece quasi totale la presenza di artisti neri sul suo palcoscenico. A riconferma di un atteggiamento volutamente provocatorio e discriminante da parte della società bianca americana.
Non era infrequente perciò, intorno alla metà degli anni Venti, incontrare tra gli avventori un Charlie Chaplin e ascoltare l’orchestra di un Cab Calloway (altro importante direttore e cantante di colore dell’epoca), come abilmente ci mostra Francis Ford Coppola nel suo film Cotton Club, appunto, interpretato da Richard Gere. Nasce proprio qui, o qui comunque si perfeziona, spinto dall’entusiasmo della sua stessa energia, il genere musicale del jungle, quello “stile-giungla” che furoreggerà negli anni a venire.
Ellington rimane certamente il massimo esponente di tale sonorità e, come esempio, pensiamo a sue composizioni come The mooch o Black and Tan fantasy; ma anche i suggestivi pezzi “non-sense” (per via dei testi “pretesto” alla musica) del citato Calloway, come il famosissimo Minnie the Moocher o Zaz Zuh Zaz (di qualche anno più giovani rispetto alle citate composizioni di Ellington). Lo stile giungla dunque fa impazzire i bianchi snob e contemporaneamente rischia di far scivolare ulteriormente la reputazione del popolo nero nel più profondo dei baratri razzisti, quello che mal celava la discriminazione sotto le ipocrite spoglie del mito del “buon selvaggio”.
Dal canto suo “Duke” era in perfetta buona fede perché la sua voleva essere una genuina rievocazione africana e, inoltre, non va dimenticato che i concerti del Cotton Club erano diffusi in diretta radiofonica a milioni di americani, compresi stavolta anche i neri! Ciò che più conta è la capacità del jungle di invertire una tendenza negativa, di far percepire l’Africa in modo positivo, come un valore, per quanto raffigurato nelle vesti della finzione e dello stereotipo. E’ questa una prospettiva da non sottovalutare se si vuole dare la giusta dimensione alla statura di compositore e di uomo di Ellington.
E così nascono brani come i due travolgenti Cotton club stomp, o lo struggente Mood Indigo.
Ma la sua opera più ambiziosa, per proporzioni e tematiche espresse, è certamente la suite Black, Brown and Beige, del 1943.
La critica, sappiamo, non apprezzò, all’epoca, appieno la fatica di Duke; ci furono solo osservazioni negative riguardo alla struttura che parve, ai più, sfilacciata e inconcludente. Noi oggi sappiamo che è invece un capolavoro per ingegno inventivo e orchestrazione. Esiste una versione discografica posteriore a quella del concerto della Carnegie Hall ed esattamente un disco della Columbia del ’58, che però difetta di alcune sezioni previste in origine, ma che ospita la voce intensa di Mahalia Jackson. Fin dal primo movimento il lamento delle piantagioni nere del Sud degli Stati Uniti è latente, soprattutto quando ad intonare uno splendido canto con il caratteristico effetto detto yah yah è la tromba di Joe Nanton. Tutto il materiale iniziale è scandito dai regolari colpi di timpano che alimentano la sensazione di work song dei temi ellingtoniani. Ma il momento più alto di tutta la prima sezione (Black, appunto) è certamente raggiunta da Come Sunday, che, come è stato giustamente notato, non può offrire gioia per il giorno di festa – come ci si aspetterebbe- perché per i lavoratori delle piantagioni, la domenica era solo un giorno di pausa nel lavoro massacrante; era quindi un momento di malinconica stanchezza e tutto ciò sembra racchiuso nello struggente canto del violino di Ray Nance.