Okkervil River – The Stage Names recensione.
Dopo due anni i germogli presenti nell’album Black Sheep Boy sono fioriti in The Stage Names; elementi che apparivano troppo sporadicamente per costituire innovazione e che concorrono ora in maniera molto più omogenea a costruire una sonorità diversa da quella degli esordi.
L’eccezione del lavoro precedente diventa dunque la regola: la velocità aumenta, il ritmo si fa preponderante, melodie pop trovano ampio spazio, la voce si estende verso un registro più acuto ed il piano interviene ad accompagnare la maggior parte dei brani.
La band mette subito in chiaro la nuova tendenza dando il via all’ultimo album con Our life is not a movie or maybe, tra i brani più intensi, scosso da una voce che di certo resta ben lontana dal virtuosismo, ma che perlomeno raggiunge correttamente (la maggior parte del)le note ora. Del resto, la carenza tecnica è sempre stata ben compensata dall’intensità e dalla forza comunicativa da parte del cantante. In più, qui Will Sheff sfodera un’abilità che rimanda direttamente ai Cure: quella di giocare con gli accenti delle parole ora rinforzando il ritmo dettato dagli strumenti, ora creandone un altro sovrapposto ad esso. Ciò è possibile grazie all’accurata scelta dei vocaboli che permette ad entrambi gli autori di creare richiami attraverso assonanze e contrasti, considerando testo e parti strumentali come due musiche sovrapposte. Va detto che dai testi degli Okkervil River è sempre emersa una spiccata sensibilità poetica: oltre a dare vita a vividi immaginari ed atmosfere suggestive ha sempre evitato il subordinamento del testo ad esigenze melodiche.
Ma cosa ci racconta questa voce?
Come il titolo del primo brano preannuncia, le immagini si susseguono attraverso una visione della vita come arte, in un percorso metateatrale che lega l’intera opera. Personaggi e situazioni presentati come film, ma anche riflessioni sulla magia della musica, o meglio sulla sua parte oscura:
“What gives this mess some grace unless it’s kicks, man
unless it’s fictions, unless it’s sweat or it’s songs?”
La risposta a questa domanda, posta nel secondo pezzo dell’album, Unless it’s kicks” , mostra un processo creativo travolgente, schiacciante, del quale il musicista è solo vittima inerme; tra la sofferenza spunta però l’immagine di una fan a dare valore e significato alla musica.
La rassegna di immagini ed improbabili personaggi prosegue in “A hand to take hold of the scene” : la melodia pop, l’accompagnamento del piano nelle strofe ed i cori fanno di questa canzone la più solare composta finora dalla band.
Ma allegria e leggerezza durano poco, perché “Savannah smile” ci riporta ad un’atmosfera raccolta e malinconica, più simile a quelle solite della band. Anche la voce torna ad un registro più basso, il timbro si addolcisce ed il tempo è scandito solamente da un metronomo, quasi per non disturbare il momento di intimità di un padre che riflette nostalgicamente sul rapporto con la figlia.
A seguire, “Plus ones”, atto emblematico di questa commedia dell’assurdo: di nuovo il tema è tra i più seri, ma trattato con molta ironia ed uno sguardo vagamente onirico, di modo che il filo logico presto si perde tra mongolfiere, candele e fratelli cinesi. Come se la propensione al nonsense non fosse già palese, l’ultima strofa recita:
“Lets make the world’s stupidest stand and truly mean it”
Probabilmente non si può riassumere meglio l’attitudine degli Okkervil River alla continua commistione di reale e surreale.
Con “A girl in port” si torna ad un ritmo più rilassato, alla dolcezza ed all’intimità di “Savannah smile”; si passa poi attraverso un altro brano ritmato ed orecchiabile e, come al solito, dal testo criptico intitolato “You can’t hold the hand of a rock and roll man” per arrivare a “Title track”, giocata sulle bellissime sfumature della voce e sul dono del cantante di toccare nel profondo con poco più di un sussurro. Le strofe sono accompagnate da poche note di chitarra appena percepibili e separate da brevi successioni di accordi molto più decisi, a creare contrasto ed aggiungere un tocco di teatralità.
L’album si chiude con l’intensa “John Alley Smith Sails”, che trova splendore nella semplicità sia musicale che verbale. Pochi e delicati tratti per immaginare l’addio che avrebbe potuto cantarci il poeta John Barryman (pseudonimo di John Alley Smith appunto), prima di suicidarsi.
Ancora una volta emerge la cura per i dettagli, nel crescendo emozionale della linea melodica e nel graduale aumento di corposità del materiale sonoro. Il tutto sfocia in una curiosa citazione del pezzo folk “Sloop John B”, reso famoso dai Beach Boys. E’ Sheff stesso, nelle interviste, a spiegare questo accostamento nato un po’ per caso: si tratta, è vero, di una canzone dalla musica allegra, ma con un triste messaggio di sconfitta, che quindi si allinea perfettamente con il tema del suicidio.
“The Stage Names” si rivela dunque un ottimo album, il migliore della band, e ci lascia un interrogativo al quale, si spera, il futuro porterà risposta: chissà a cosa possono arrivare gli Okkervil River, una volta accorciata la distanza tra idee e competenza tecnica?