Material – Hallucination Engine
Ci sono certe persone che provano un certo orgoglio nel possedere certi dischi o certi libri. E costoro non sono i maniaci della rarità che vantano nella propria collezione il pezzo raro, magari pubblicato in tiratura limitata, magari con quel “difetto” che l’ha reso prezioso, magari famosissimo. In genere queste certe persone possiedono questi certi dischi e li conservano, e, pur pienamente coscienti che hanno un pezzo di storia della musica tra le mani, sono anche felici di essere tra i pochi a metterci sopra i polpastrelli.
Dunque, immaginate un pezzo di vinile o un dischetto argentato che contengano musica prodotta con la collaborazione di: il miglior scrittore americano della seconda metà del secolo scorso, uno dei migliori sassofonisti tuttora in circolazione, il produttore più prolifico/innovativo, il bassista che ha reinventato il basso funky. Oh, probabilmente le definizioni sopra esposte sono un pochino esagerate (non tutte…), ma il signor Bill Laswell (credo secondo solo a John Zorn in quanto a prolificità) ha riunito nel 1994 una manciata di talenti ed ha prodotto uno dei dischi più seminali per il decennio a venire. Anche se pochi lo conoscono.
Bootsy Collins, bassista di Parliament e Funkadelic, William Burroughs, sicuramente uno degli scrittori più seminali della letteratura Americana del secolo scorso, Wayne Shorter, degno erede di Coltrane e membro dei Weather Report, e poi Trilok Gurtu, Lakshminarayana Shankar, Nick Scopellitis…
| Bill Laswell | Bootsy Collins |
Laswell è un discreto bassista, e pure uno dei migliori produttori in circolazione, se non credete che abbia lasciato un’orma più che considerevole nella storia della musica provate un po’ a cliccare qui. Impressionante. E’ suo il merito di tanto perfetto meccanismo.
Ma parliamo un po’ del disco. Non c’è dubbio che, ad ascoltarlo oggi, i più smaliziati sentano presente l’effetto Buddha Bar, e giovani signorine alla moda pensino alla loungissima ora dell’aperitivo… sono dieci anni e forse più che musica etnica, elettronica, passerotti frullanti e pezzi da ballare con i piedi fermi ci trastullano le orecchie mentre con una mano teniamo un trammezzino e con l’altra lo spritz o il prosecco. Ma questo disco è diverso, qui ci si trastulla con suoni, voci e percussioni originali. Davvero una bella macchina.
| William Burroughs | Waine Shorter |
Black Light è il primo pezzo, che apre l’album e ci fa cadere in atmosfere cupe. Il dub lo pervade , come pervade tutto l’album, e questo vuol dire delay frammentati ed un basso profondo, che prende lo stomaco. Ma da subito c’è un ospite inatteso, che con i canoni del figlio bastardo delle musiche caraibiche ha poco a che fare, Shorter con il suo sax soprano, dipinge una linea melodica ed un’improvvisazione che virando in senso modale il brano, comunica una freschezza notevole. Insomma, basso ripetitivo ed accordi che girano su du esso lasciati intuire dal sax. Eccelso.
Rumorini, stanze ampie in cui la batteria si perde, percussioni sino al successivo Mantra. Le tablas ed il violino elettrico di Shankar ci accompagnano in un mondo meditativo ed intyrospettivo. Quasi nove minuti che scorrono come l’acqua sul vetro.
|Trilok Gurtu | Bernie Worrell |
In Eternal Drift si ha ancora a che fare con il dubcon sintetizzatori e suoni etnici, ma l’atmosfera comincia a farsi più tesa, comincia a fare capolino il funk…
E questo finalmente sorge nella sua forma più stilosa in Words of Advice, in cui William Burroughs il prete nero del misticismo ateo americano predica e distribuisce consigli per i giovani, in cui l’unica parola che mi viene in mente è… classe! Sembra che Burroughs sia un rapper ante litteram, con quella sua voce bassa (su base composta da un loop di Red Baron, pezzo di Billy Cobham), lo immaginiamo seduto su una sedia a dondolo davanti alla porta di una casa di legno nella campagna americana, e con l’immancabile fucile in mano.
Ed è fuoco. Tablas, didgeridoo, batteria in stanze ampie, flauti di pan e campioni da Cucumber Slumber (dei Weather Report). Un semplice remix? Anche, ma non solo. Il funky che ingloba tutto, che non annoia, che non è ripetitivo, che ci illude e diverte con stop’n’go che mi prenderebbero sicuramente alla sprovvista se non conoscessi il disco a memoria. E quel grande son of a bit** che si diverte dietro il suo basso ed i suoi assurdi occhiali da sole…
Naima/The Hidden Garden è un grande omaggio a Coltrane, (ma il tema è fatto dal basso, come l’avrebbe e l’ha suonato Jaco Pastorius…) il dub che si mescola col jazz che si mescola con musica etnica. Elettronica terzomondista.
Il disco si chiude con Shadows of Paradise, che ci riporta alla realtà, ci fa uscire dallo stato ipnotico in cui eravamo calati. Il titolo ci fornisce una chiave di lettura rispetto alla musica contenuta nell’album. Il disco intero è una macchina per le allucinazioni (dream machine) che fa calare l’ascoltatore che lo affronta con la giusta predisposizione, in uno stato di rilassamento e meditazione. Attraverso la ripetitività dei pattern dub ed al contempo la varietà delle improvvisazioni e dei temi, questo lavoro stimola la nostra mente, e muove i nostri sensi.
Ci sono certe persone che provano un certo orgoglio a proporre certi dischi, che li fanno ascoltare agli ospiti che invitano a cena ed agli amici con una certa cultura musicale.
“Bello questo…”
“…è Wayne Shorter…”
Stupore.
“…e questo è Boosty Collins che suona sulle tablas di Gurtu… un altro po’ di vino?”
Sorriso.