From progressive to revelation: la storia dei Genesis capitolo 6
I successi artistici e commerciali
del dopo Gabriel
I quattro rimasti (Banks, Collins, Hackett e Rutherford) non hanno, giustamente, intenzione di arrendersi alla defezione di Gabriel e si danno quindi da fare, con audizioni varie, per trovarne un sostituto.
Ma tutto è inutile perché i Genesis la soluzione ce l’hanno già in casa e si chiama… Phil Collins.
Il batterista si è già cimentato con successo alla voce solista e ai controcanti nei dischi precedenti, il suo timbro di voce è sorprendentemente simile a quello del suo predecessore (anche se un po’ meno profondo e meno ricco di sfumature cromatiche) e così il gioco è fatto.
L’album successivo, composto e registrato con una reattività sorprendente da parte dei quattro (anche se vengono riprese e rielaborate alcune idee musicali lasciate fuori da THE LAMB e dai dischi precedenti) è A TRICK OF THE TAIL e viene pubblicato a febbraio del ’76.
Il disco riscuote un successo, in termini di vendite, strepitoso, connotando un eccezionale riscontro da parte del pubblico che non verrà più meno fino all’abbandono di Phil Collins.
Tutto sommato, la dipartita di Gabriel si rivela meno traumatica del previsto, vista la somiglianza del cantato di Collins e visto che le trame sonore continuano ad essere gestite con sempre più padronanza, presenza e consumata perizia tecnico-compositiva dalle tastiere di Tony Banks.
Le atmosfere si allontanano dalle cupezze claustrofobiche e dagli squarci elettronici dell’ultimo album con Peter Gabriel per reimmergersi nelle progressioni romantiche e dolcemente evocative di SELLING ENGLAND, pur non avendo, di quel disco, la potente e catartica tensione emotiva.
Molto esplicative in questo senso sono “Entangled”, “Mad man moon” e, summa dell’intero patrimonio romanticheggiante genesisiano (assieme a quella “Afterglow” del disco immediatamente successivo e di cui parleremo tra poco), la dolcissima “Ripples”.
“Dance on a volcano”, “Squonk” e “Robbery, assault and battery” sono decisamente più ritmate e musicalmente altrettanto piacevoli, inquadrabili in un contesto che indurisce nella giusta misura il suono progressive senza assolutamente svilirlo; la title-track ha una sua peculiarità compositiva in bilico tra l’originalità e la faciloneria, mentre il brano conclusivo (“Los endos”) è uno strumentale che, in una sorta di riepilogo dei temi sonori del disco (abitudine molto in voga tra i gruppi progressive), riprende le melodie di “Dance on a volcano” e di “Squonk”.
I Genesis non si prendono pause e, nel giro di un anno, danno alle stampe ancora un nuovo album, WIND & WUTHERING (gennaio ‘77).
Il disco, dal punto di vista della produzione e degli arrangiamenti, non si discosta quasi per nulla da quello precedente, ma salta agli occhi (dai credits) e alle orecchie (dai suoni) che il contributo compositivo e strumentale di Steve Hackett è in secondo piano.
I primi due brani, “Eleventh Earl of Mar” e “One for the vine”, lunghi e compositi secondo la consolidata tradizione del gruppo, sono l’architrave dell’intero album, in quanto contengono tutte le caratteristiche tipiche del suono progressivo dei Genesis: alternanza di atmosfere tenebrose e pacificanti, progressioni sonore guidate dalle tastiere, efficaci variazioni ritmiche.
Ci sono, inoltre, due delicate ballate innervate da linee melodiche non banali (anche se affiora qua e là una patina eccessivamente zuccherina), “Your own special way” (a firma Rutherford) e la già citata “Afterglow” (a firma Banks), invincibilmente e inguaribilmente malinconica; “All in a mouse’s night” e “Blood on the rooftops”, invece, hanno poco o niente da aggiungere al loro classico suono.
Valida più per l’idea di fondo che per la realizzazione effettiva è la mini-suite strumentale “Unquiet slumbers for the sleepers…in that quiet earth”: le piacevoli linee melodiche finiscono per impantanarsi in un arrangiamento poco originale, mentre l’insulsa “Wot gorilla?” (dove c’è lo zampino compositivo di Collins) suona come un preoccupante campanello d’allarme…
A sorpresa, in maggio, esce un singolo con titolo autonomo e ben tre brani inediti tratti dalle sessions dell’ultimo album, SPOT THE PIGEON.
Non sono canzoni memorabili, ma almeno “Inside and out”, una dolce ballata, non avrebbe sfigurato su WIND & WUTHERING.
A ottobre viene pubblicato finalmente un disco dal vivo degno di tal nome, SECONDS OUT.
A dirla tutta, siamo in presenza di un signor live, e per vendite e per qualità, indimenticato e indimenticabile suggello del rock di marca Genesis.
Dietro i tamburi è stato ingaggiato Chester Thompson (nel disco suona lui tranne in “The cinema show”, tratta dalla tournee del ‘76, dove suona Bill Bruford, grande ex batterista degli Yes prima e dei King Crimson poi), per dar modo a Collins di esprimersi più compiutamente alla voce.
L’album è molto compatto e ha un suono robusto e convincente: i brani nuovi sembrano rifulgere di una luce più brillante rispetto agli originali in studio, ma si fanno valere anche quelli vecchi (su tutti la sempre bella “Carpet crawlers”, l’energetica sezione finale di “The musical box”, la rinnovata “I know what I like” e l’intramontabile “Supper’s ready”), reinterpretati con una grinta carica di magica suggestione, rafforzata dalle ottime riletture vocali di Phil Collins, in bilico tra gabrielese, gigionerie varie e ricerca di una sua identità vocale che non tarderà a trovare.
Nel frattempo anche Steve Hackett se ne è andato, frustrato dal ridotto spazio che la persistente egemonia compositivo-strumentale di Banks e la nascente, e sempre più prepotente, egemonia carismatica di Collins lasciano alla sua chitarra e alle sue idee.
Ma i Genesis, refrattari ad ogni cedimento, hanno già in cantiere un nuovo disco, in uscita a marzo del ‘78, ironicamente intitolato …AND THEN THERE WERE THREE….
L’album, da sempre, viene considerato un episodio minore della discografia Genesis se non, addirittura, il primo inequivocabile segno della decadenza artistica, ma io sono parzialmente d’accordo con questa tesi.
Le canzoni hanno (e questo risalta già dalla cupa copertina) un mood profondamente ombroso e, a suo modo, affascinante, umore che a volte sfocia nella rabbia più cruda e a volte nella più amara malinconia.
Anche se i tre rimasti non sempre trattano la materia con la dovuta lucidità (ciò è probabilmente dovuto all’eccessiva fretta con cui viene compilato e completato il lavoro) e anche se ci sono delle intuizioni compositive non completamente messe a fuoco, nella maggior parte dei brani (da “Down and out” a “Snowbound”, da “Burning rope” a Deep in the motherlode” e “The lady lies”, per finire con le mestissime “Many too many” e “Say it’s alright Joe”) il gruppo si sforza di trovare una nuova strada che non lo imprigioni nell’ormai standardizzato e pomposo suono progressive.
Da tutto questo rimane completamente avulsa, paradossalmente, la canzone più conosciuta di questo disco, l’insignificante “Follow you follow me”, pop zuccheroso oltre ogni misura, a mio parere uno dei brani più scialbi e infelici mai incisi dai Genesis.
Dopo due anni di silenzio (cosa abbastanza inusitata per i frenetici ritmi di lavoro fino a quel momento tenuti dalla band) appare nei negozi (marzo ‘80) un nuovo album dei tre, DUKE, l’ultimo che abbraccia totalmente gli stilemi progressive tanto cari ai nostri.
Già da qualche anno il punk prima e la new wave come diretta conseguenza hanno completamente rinnovato (e continueranno ancora a farlo) l’approccio alla composizione e all’arrangiamento, portando ad una rilettura più moderna ma non meno affascinante dei formati del rock album e della rock song: conseguenza di ciò è l’abbandono dei territori progressive, considerati un paludato e retorico retaggio del passato, in palese contrasto sia con la sintesi del linguaggio musicale operata dalla new wave, sia con il mercato discografico che comincia a cogliere la valenza ballabile – e quindi commerciale – di certo nuovo rock.
I Genesis del dopo DUKE si accoderanno con furbizia e consumato mestiere a questa nuova temperie, ma intanto soffermiamoci su quest’album che, se è veramente il testamento del suono più creativo del gruppo, lo è nei termini migliori.
Anche DUKE, come il suo predecessore, all’apparenza sembra evidenziare sonorità stanche e ripetitive, ma un ascolto attento rivela, accanto ai fatali e inevitabili ‘già sentito’, finezze di scrittura non di poco conto, completate da una lodevole voglia di rinnovare (con piccole, ma costanti, correzioni di tiro) il loro linguaggio rock per evitare l’ovvietà.
Le canzoni presentano una piacevole compattezza a livello di produzione e di arrangiamenti, impatto che, però, non fa perdere il dettaglio dei singoli strumenti e degli impianti melodici, quasi sempre trattati al meglio.
L’epopea progressive è celebrata in grande stile nella splendida suite “Duke’s travels / Duke’s end”, un’imponente cavalcata sonora in bilico tra l’elettrico e l’elettronico; dolcissime e malinconiche, insomma profumate del tempo che fu, sono “Heathaze” (di Banks) e “Alone tonight” (di Rutherford); possenti e determinate a scavalcare la nostalgia con nuove sonorità sono “Behind the lines” e “Duchess”, mentre “Turn it on again” gioca la carta del singolo pop con maggior grinta rispetto a “Follow you follow me”.
Due parole, infine, sui primi due brani firmati (in casa Genesis) dal solo Phil Collins: “Misunderstanding”, facile e insipido pop, e “Please don’t ask”, lento strappalacrime: nessuno all’epoca lo immagina ancora, ma, a breve, saranno quelle le coordinate, ahimé le uniche, del nuovo suono Genesis…