Billy Joel – 12 gardens live – 2006

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E’ uscito alcuni mesi fa il nuovo doppio album, rigorosamente dal vivo, di Billy Joel: grande classe e grande feeling sparsi per 32 canzoni per un totale di oltre due ore e mezza di musica straordinariamente coinvolgente!
A questo punto già immagino lo spaesamento spazio-temporale di qualche lettore particolarmente attento.
Ma come? Questo ci ha sempre detto che predilige (e di molto) il rock inglese a quello americano, ci ha sempre detto che i suoi veri amori sono la ‘new wave’, David Bowie, il ‘progressive’ e il ‘rock-blues’ e ora se ne esce con tutti questi elogi per un disco di Billy Joel?
E cosa c’entra il suddetto “piano man” con i suoi suddetti amori?
Niente, assolutamente niente, rispondo io, eppure… eppure fin da ragazzino le sue canzoni esercitano su di me un fascino magnetico.
Per i suoi detrattori il buon Joel è sempre stato un epigono della ‘verve’ compositivo-pianistica di Elton John e, per certi versi, è vero: ma alle mie orecchie le canzoni dell’artista americano si palesano come composizioni di romantica sincerità (e allo stesso tempo nutrite da sentimenti esposti con pudica misura), cose che spesso sono sembrate mancare a Elton John, travolto da pacchianerie di ogni tipo (non solo musicali).
Joel, ad un certo punto della sua carriera, ha scelto di non incidere più nuove pop songs: ma attenzione, questa decisione non è stata motivata da un repentino e irreversibile calo di popolarità e di vendite (tutt’altro: l’ultimo disco di canzoni, RIVER OF DREAMS del 1993, fu un successo straordinario, soprattutto negli USA), ma dalla consapevolezza di un comunque fisiologico calo dell’ispirazione e, soprattutto, dalla voglia di cimentarsi nell’ambito della musica ‘seria’.
Questa voglia (concretizzatasi nel 2001 con l’album FANTASIES AND DELUSIONS) mi vede, come ben potete immaginare, in totale disaccordo (mi ha sempre dato fastidio l’idea che l’ “artista rock” – per avere la patente di “artista vero” – debba per forza cimentarsi nella musica classica o in quella operistica); ho apprezzato invece tantissimo la sua scelta di lasciare il pop-rock quando era ancora, comunque, in cima.
Dal mio punto di vista questo ha significato un enorme rispetto per la dignità stessa della musica rock: a differenza di tanti patetici sessantenni (leggi i Rolling Stones, Paul Mc Cartney o lo stesso Elton John) che, in barba ad un’ispirazione ormai morta e sepolta, continuano ad incidere dischi rock (o presunti tali…) con l’unico scopo di fare soldi, ma rendendo, così, parodistica (e quindi relegandola a una vaghissima sotto-cultura) la figura del vero artista rock.
Ma torniamo al disco: esso è frutto di 12 serate live al Madison Square Garden di New York e mette in fila praticamente tutti i brani migliori o più famosi di Joel.
Da una rapida scorsa mancano soltanto “Honesty” e “Just the way you are” (tra i migliori) e “Pressure” e “Tell her about it” (tra i più famosi), ma è veramente un voler cercare il pelo nell’uovo.
Il suono è ‘pop americano’ al 100%, ma è suonato con classe, professionalità e feeling da ottimi strumentisti.
Certo, per me la differenza nel modo di intendere ‘certi suoni’ e di suonarli, ‘quei suoni’, è fondamentale (per intenderci: se ascolto “My way” cantata da Frank Sinatra e suonata da una big band il mio apparato circolatorio si trasforma in uno zuccherificio, ma se ascolto quella stessa canzone nella versione iconoclasta di Sid Vicious – il defunto bassista dei Sex Pistols – le mie orecchie vanno in brodo di giuggiole!), però il fascino vocale e melodico di Billy Joel mi fa mandare al diavolo – una volta tanto – l’intransigenza sonora!
Ma la differenza la fanno le canzoni: grandi, se non addirittura memorabili, melodie intrise di un romanticismo di volta in volta placido ed elegiaco o infervorato e grintoso.
E poi la duttilità e l’armonicità con le quali il nostro sa passare dal dolce all’amaro e viceversa sono il segno di una non comune capacità compositiva e comunicativa.
Alcuni brani (soprattutto i più epici come “Goodnight Saigon”, “The night is still young”, “Scenes from an italian restaurant”, “We didn’t start the fire”) sfiorano pericolosamente gli abissi della retorica, ma sull’orlo del dirupo intervengono fantastiche doti di equilibrismo; altre canzoni (come “An innocent man”, “She’s always a woman”, “Piano man”, ”And so it goes”, “Laura” e le intramontabili “New York state of mind” e “Miami 2017”) sono di una dolcezza disarmante ed evocano al punto giusto; il resto è una cavalcata inarrestabile nel rock’n’roll intergenerazionale senza se e senza ma.
Concludo citando l’impegno sociale di Joel, meno appariscente ma molto più coerente di tanti suoi colleghi e, tornando in ambito musicale, segnalando l’ottimo cofanetto retrospettivo – MY LIVES – uscito lo scorso anno e i suoi album – a mio parere – migliori: TURNSTILES del 1976, THE STRANGER del 1977 e AN INNOCENT MAN del 1983.
Questa è la track-list del disco:
01. Angry young man
02. My life
03. Everybody loves you now
04. The ballad of Billy the kid
05. The entertainer
06. Vienna
07. New York state of mind
08. The night is still young
09. Zanzibar
10. Miami 2017 (I’ve seen the lights go out on Broadway)
11. The great wall of China
12. Allentown
13. She’s right on time
14. Don’t ask me why
15. Laura
16. A room of our own (ghost track)
17. Goodnight Saigon
18. Movin’out (Anthony’s song)
19. An innocent man
20. The downeaster “Alexa”
21. She’s always a woman
22. Keeping the faith
23. The river of dreams
24. A matter of trust
25. We didn’t start the fire
26. Big shot
27. You may be right
28. Only the good die young
29. Scenes from an italian restaurant
30. Piano man
31. And so it goes
32. It’s still rock and roll to me (ghost track)