Imagine forever: la storia di John Lennon
Una volta scioltisi i Beatles, ognuno dei quattro componenti si imbarca nella scontata carriera solista.
George Harrison produce subito il triplo, monumentale (ma, in certi momenti, ridondante) ALL THE THINGS MUST PASS, reale summa delle sue migliori capacità, il cui livello ispirativo non verrà mai più nemmeno sfiorato; Ringo Starr, il più debole dei quattro, si perde in futili canzonette senza arte né parte; Paul McCartney si impegna (si fa per dire) nello sfornare canzoni il più possibile dolciastre e ripetitive, prive del nerbo, dell’originalità e della freschezza degli anni-Beatles; John Lennon è l’unico che, almeno per i primi anni, tiene alta la bandiera del gruppo di Liverpool.
Dopo tre album con Yoko Ono che, con un eufemismo gentile, potremmo definire di musica sperimentale (in realtà un’assurda e pretenziosa accozzaglia di inutili rumori, gentile lascito dell’ ‘ispirazione avanguardistica’ della Ono) e un bel live inciso nel ’69 a Toronto, Lennon, accompagnato dalla Plastic Ono Band, esordisce nel ’70 con il suo primo, splendido disco solista.
In quel periodo la coppia è in terapia psicanalitica presso il famoso psichiatra americano Arthur Janov la cui opera più famosa, “The primal scream” – il grido primordiale necessario per regredire alla dimensione e ai ricordi infantili per poi recuperare una migliore condizione psichica adulta – , è substrato basilare per comprendere le canzoni di JOHN LENNON/PLASTIC ONO BAND.
L’incipit è potentissimo: un lugubre rintocco di campane a morto che segna l’inizio di “Mother” nel tragico ricordo della prematura scomparsa della mamma di Lennon (morta quando lui aveva 18 anni, ma già da lei separato all’età di due anni quando i suoi genitori divorziarono e lui andò a vivere con una zia): la canzone è un toccante rimprovero ai due genitori che lo hanno abbandonato, ma contemporaneamente è una pressante richiesta di aiuto e di amore mancati (con quelle reiterate, strazianti e straziate urla ‘janoviane’ “Mama don’t go, Daddy come home”).
Ci sono, poi, un paio di serrati rock come “I found out” e “Remember”, la splendida, acustica “Working class hero” del socialista utopico Lennon, i due delicati bozzetti d’amore, “Love”, appunto, e “Look at me”, la curiosa “Well well well”, la triste “Isolation” e la dispensabile “Hold on”.
Altro punto fermo dell’album è “God”, durissima presa di posizione contro la religione (“Dio è un concetto con il quale misuriamo il nostro dolore”, dice Lennon) e contro i falsi miti della nostra società, dalla Bibbia a Hitler, da Cristo a Buddha, con Lennon che finisce per rinnegare anche Presley, Zimmermann (Bob Dylan, cioè) e addirittura, con un ultimo simbolico strappo, i Beatles.
Il tutto si chiude con una specie di nenia tragica in cui l’autore, con voce lamentosa e infantile, ci ricorda (e ricorda a se stesso) che la sua mamma non c’è più.
L’anno dopo Lennon bissa con un secondo disco che, per ispirazione e potenza musicale e poetica, non è da meno rispetto al suo predecessore: stiamo parlando di IMAGINE, famoso soprattutto perché contiene la canzone omonima, ma degno di ascolto per la presenza di altre perle del song-book lennoniano.
“Imagine”, pur non essendo certamente la canzone più bella scritta da Lennon, è certamente, per limpidezza della melodia e semplicità della struttura armonica, unite all’afflato universale dell’ingenuo ma (proprio perché tale) sincero e sentito testo, la canzone più riconosciuta e riconoscibile dell’intero universo post-beatlesiano: “…and the world will live as one”… accadrà mai?
Dopo l’allegra “Crippled inside”, c’è la splendida, tenerissima dichiarazione d’amore di “Jealous guy” (con la delicata linea melodica esaltata da un bell’arrangiamento d’archi), subito seguita dal Lennon più disincantato e amaro di “It’s so hard”, durissima anche nella musica.
Bella ballata su base blues, con una precisa presa di posizione anti-violenta e anti-militarista, è “I don’t wanna be a soldier mama” che ribadisce l’ispirazione pacifista della coppia [tra i brani no-album del post-Beatles ono-lennoniano ricordiamo “Power to the people”, “Give peace a chance” e “Happy Xmas (War is over)”].
A seguire c’è l’abrasiva (musicalmente e liricamente) “Gimme some truth”, l’immaginifica purezza bucolica di “Oh my love”, il violentissimo rimprovero a Paul McCartney di “How do you sleep?” (“the only thing you done was yesterday” canta Lennon), la tensione serena (o la tesa serenità, a scelta) di “How?” e la leggera caduta finale di tono con l’eccessivamente mielosa “Oh Yoko!”.
Gli anni successivi vedono prima una radicalizzazione delle posizioni politiche della coppia Lennon/Ono (ancora battaglie a favore del femminismo, della pace nel mondo, contro l’imperialismo anglo-americano con il doppio album del ’72 – molto debole per la verità – SOMETIME IN NEW YORK CITY) e poi un ripiegamento, tra lo sdegnato e lo sconfortato, verso il privato (l’ancora deludente MIND GAMES del ’73; lo splendido colpo di coda di WALLS AND BRIDGES del ’74 – frutto del lucido astio verso la Ono che lo aveva momentaneamente abbandonato -; la poco originale raccolta di cover ROCK’N’ROLL del ’75).
Infine, dopo cinque anni di silenzio apparentemente sereni, ma, in realtà, ricchi di travagli personali e di coppia, viene pubblicato il dispensabile DOUBLE FANTASY (dove l’intatta vena melodica di Lennon viene sporcata da arrangiamenti oltremodo dolciastri), tragico preludio a quell’8 dicembre dell’80…