Storia di una … (The) Band – Parte decima
La tournée di Bob Dylan & The Band nell’inverno del 1974 rappresentò un punto di svolta per il mondo del rock, solo quaranta concerti ma la magnitudo dell’evento rivoluzionò una volte e per tutte la musica dal vivo: Dylan intendeva suonare nei club, gli fu spiegato che non sarebbe stato possibile; l’esordio avvenne a Detroit davanti a ottantamila persone e proseguì di esaurito in esaurito sera dopo sera, eppure i 600mila spettatori accumulati in tutte le date furono un gruppetto di fortunati giacché senza alcuno sforzo di marketing non appena la tournée divenne notizia piovvero 6 milioni di richieste di biglietti. Erano passati otto anni dalla tournée del ’66 e la leggenda ormai avvolgeva il menestrello di Duluth e il suo gruppo di supporto, che ora era diventato The Band, un nome – come abbiamo visto nel capitolo precedente – capace di muovere autonomamente centinaia di migliaia di fans.
Il ritorno in studio dopo la trionfale tournée portò alla luce Northern lights – Southern Cross, un album che all’epoca fu salutato come il ritorno di The Band ai fasti dei primi lavori, ma visto oggi era chiaro che si trattava di un canto del cigno perché se da un lato il disco conteneva diversi brani degni di figurare nel meglio del catalogo del gruppo – “Ophelia”, “Acadian Driftwood” e “It makes no difference” su tutte – dall’altro il gruppo continuava a battere i soliti territori e senza la ricerca di nuove frontiere musicali era chiaro che il viaggio si sarebbe concluso a breve.
Nacque così L’Ultimo Valzer – The Last Waltz – nacque per volontà di Robbie Robertson, ormai stanco della vita di musicista on the road. Nacque per volontà di Robbie Robertson e a chi scrive piace pensare che solo un mezzo indiano come il grande chitarrista canadese poteva inventarsi un’uscita di scena così gloriosa – da myth in the making, mito nel momento in cui accade: chiudere la carriera il giorno della Festa del Ringraziamento, la più popolare d’America, quella più radicata nell’immaginario del paese, di quel paese che The Band aveva esplorato durante il suo viaggio musicale; chiuderla a Winterland, il locale di San Francisco dove otto anni prima il gruppo si era esibito per la prima volta come The Band; chiuderla in un concerto in cui tutte le anime musicali di The Band fossero rappresentate e dividendo quindi il palco con il primo e l’ultimo mentore (Ronnie Hawkins e Bob Dylan), con uno dei padri del blues elettrico (Muddy Waters), con gli amici del Sud, della Louisiana, di là dove nasce la musica americana (Bobby Charles, Dr. John, The Staples), con artisti che avrebbero portato il messaggio musicale di The Band nei decenni a venire (Emmylou Harris), con gli amici canadesi che come The Band avevano portato in quegli anni nuova linfa nella musica a stelle e strisce (Joni Mitchell, Neil Young), e per finire gli amici europei (Ringo Starr, Ron Wood, Van Morrison) che facendo loro quella musica l’avevano resa universale.
Come non fare un album dal vivo di tutto questo?
E l’album triplo fu, oggetto di culto anche per chi non l’aveva mai sentito.
Come non fare un film di tutto questo?
E il film fu, e a dirigerlo fu il grande Martin Scorsese, il titolo: The Last Waltz.
Sarebbero tante le cose da scrivere a proposito di The Last Waltz ma credo che giunti in fondo a questa storia i cui titoli di coda scorreranno in una appendice di prossima pubblicazione il vostro narratore debba diventare predicatore e dal pulpito della chiesa del grande rock invitarvi a correre nel più vicino negozio di DVD e di accaparrarvi una copia del film di Scorsese: Robbie, Levon, Rick, Richard e Garth e i loro ospiti non hanno bisogno di parole.