Mali – viaggio nella musica
Confesso che mi ci è voluto un pò ad accorgermi che K7 si legge “cassett(e)”, il principale supporto fisico utilizzato dall’industria discografica africana.
Mali K7 SA è stata la prima produzione e distribuzione discografica maliana, fondata nel 1988 assieme al moderno e attrezzato studio Bogolan, da un francese innamorato del Mali, Philippe Berthier, in associazione con Ali Farka Toure e con il bassista e arrangiatore francese Yves Wernert. Da allora, oltre a duplicare su cassette e distribuire localmente i lavori di artisti maliani realizzati in Europa, Mali K7 produce in proprio una decina di album all’anno, che occasionalmente vengono distribuiti all’estero da etichette europee. Tra gli artisti transitati per Mali K7, quelli poi lanciati a livello internazionale, di cui non scriverò qui, sono stati Ali Farka Toure, Oumou Sangare, Rokia Traore, Nahawa Doumbia, Lobi Traore, Neba Solo, Abdulaye Diabate, e Issa Bagayogo. Inoltre, lo studio Bogolan viene usato come appoggio in suolo mandengue dalle maggiori case discografiche europee specializzate in musica africana, come EMI, World Circuit, Indigo/Label Bleu, Syllart e Sterns.
Il lavoro davvero meritorio di Mali K7 consiste nel cercare e promuovere giovani artisti, sia nel campo della musica tradizionale che nelle sue espressioni moderne come l’hip-hop e l’elettro-dance, genere nel quale Mali K7 ha svolto un lavoro pionieristico, assicurando loro una produzione dal livello tecnico quasi impeccabile e dagli standard qualitativi assolutamente fuori scala rispetto ad altre produzioni locali.
Per comprendere meglio il terreno sul quale opera questa pulce dell’industria discografica, senza troppe pretese vorrei aprire una parentesi sugli stili e i generi musicali che convivono in Mali.
La musica “classica” è rappresentata dai djeli (griot) del gruppo etnico dei malinke, o mandengue, ed è caratterizzata dagli strumenti usati, come la kora, il balafon, il n’goni, il doundoun e il tama, dallo stile del canto e dai soggetti delle canzoni, tipicamente storie epiche e canti di lode. L’arte dei djeli viene trasmessa di padre in figlio, e i musicisti appartengono a poche famiglie ben conosciute, che in Mali sono i Kouyate, i Diabate, i Sissoko, i Kone, i Kamissoko, i Sacko. Altre famiglie in cui si trovano djeli sono i Koite, i Tounkara, i Konate, i Kanoute, i Kante.
Un malinke che non appartenga a una di queste famiglie, come ad esempio Salif Keita, che è un nobile, viene chiamato – e si definisce egli stesso – un “artista”, non è djeli e non può svolgere il loro ruolo sociale. Anche un djeli può decidere di produrre musica libera dai vincoli della tradizione, come è il caso, ad esempio di Habib Koite. Un artista è libero, ma non sarà mai coinvolto nel circuito dei concerti privati e delle cerimonie, forse il più importante circuito musicale della società maliana, che assicura ai djeli un lavoro costante e un conseguente introito economico sicuro.
Tra i malinke si distinguono tre sottogruppi, ciascuno con il proprio dialetto e la propria tradizione musicale. I Maninka, che abitano il Mali occidentale e la Guinea Conakry, i Bambara, diffusi soprattutto nel Mali nord orientale, e i Mandinka, che abitano il Gambia, il Senegal meridionale e la Guinea Bissau e dei quali non parleremo qui. La musica “classica” dei djeli, descritta in precedenza, si identifica soprattutto con la tradizione maninka, con la sua scala armonica eptatonica, il grande repertorio epico al quale appartengono brani famosi come Sundjata, Kulandjan, Mali Sadjo, e i grandi interpreti provenienti soprattutto dalle città storiche di Kita e Kela, tra cui Kandia Kouyate, Amy Koita, Kassemady Diabate e il guineiano Sekouba “Bambino” Diabate.
I bambara sono il gruppo etnico più diffuso del Mali, con centro geografico a Segou. A Bamako si impara presto a riconoscere la loro musica, perché fluisce incessantemente dalle numerose radio gracchianti sparse nelle case, nelle botteghe e nei taxi della capitale. La musica bambara si differenzia da quella maninka soprattutto perché si basa su una scala armonica pentatonica, e nelle sue forme melodico-ritmiche viene influenzata dalla musica del nord, di matrice songhay e con elementi arabi. Inoltre, nel canto la voce non è impostata, e ricorre più insistentemente la forma antifonale basata sul dialogo tra solista e coro. Tra gli strumenti prevale lo n’goni, mentre la kora è molto più rara.
Tra i bambara esiste poi una tradizione musicale specifica non legata ai djeli, quella della casta dei cacciatori, che nasce probabilmente intorno agli antichi riti propriziatori per la buona riuscita delle battute di caccia. Questa musica è piuttosto diversa dalla quella dei djeli, ha una struttura ritmica e armonica più semplice, si basa soprattutto su un tipo di n’goni chiamato donso n’goni, sui canti antifonali esclusivamente maschili e sull’accompagnamento delle percussioni.
Anche i peul, o fulani, un’etnia nomade diffusa in tutta l’area sahelica e tipicamente dedita alla pastorizia, hanno una loro tradizione musicale specifica, caratterizzata soprattutto dall’uso di strumenti musicali facilmente trasportabili, come il flauto o il violino tradizionale ad una corda, o utensili adibiti anche ad altri usi, come i recipienti di zucca, o calabash. Accade spesso che musicisti peul, soprattutto flautisti, vengano inseriti in ensable tradizionali di altre etnie, persino malinke.
Altre tradizioni associate ad etnie specifiche sono quella dogon, dell’area nord orientale che fa capo a Mopti, di cui poco posso dire, e, andando verso il nord, quelle delle etnie del deserto, i songhai e i tamashek, nelle cui tradizioni musicali l’influenza araba si fa decisamente sentire. Artisti come Ali Farka Toure o i Tinariwen, ad esempio, hanno riscosso un incredibile successo con il loro “desert blues”, trasportando su chitarra elettrica le armonie e le forme ritmiche della musica tradizionale del deserto.
Tra i generi indigeni vorrei infine citare una tradizione musicale importante e conosciuta oramai a livello internazionale, quella della regione del Wassoulou, situata nel sud del paese, a cavallo tra Mali e Guinea. Nella musica del Wassoulou convergono le influenze peul, songhai e bambara, compresa la tradizione musicale dei cacciatori, dal cui donso n’goni deriva il principale strumento della regione, il kamele n’goni, o n’goni dei giovani. Nella musica del Wassoulou, che non è legata a famiglie djeli, si usa la scala pentatonica e il canto è affidato soprattutto alle donne, accompagnate da un coro femminile. La ritmica è potente, basata soprattutto sul djembe, sul karignan e sui flé, strumenti di zucche e conchiglie, mentre i testi delle canzoni sono spesso di critica costruttiva alla società tradizionale.
Esistono poi i generi musicali nati dai popoli della diaspora africana e che oggi ritornano indietro da oltre oceano. Fino agli anni 70 e 80 andava soprattutto la salsa cubana, mentre oggi, che il sound latino-americano è un pò in ribasso, emergono il reggae di artisti come Askia Modibo, Koko Dembele e l’ivoriano residente in Mali Tiken Jah Fakoly, o l’hip hop di gruppi come i Tata Pound o Les Escrocs.
I confini tra tutti questi generi musicali non sono così precisi e definiti, tranne forse che per la musica dei djeli malinke, soprattutto maninka, che tende ad aderire più delle altre alle regole e ai vincoli della tradizione, e a mantenere la sua specificità di musica nobile, di corte, alla quale è affidata la rilevante responsabilità di custodire la cultura del passato. Mi è sembrato anche di notare, da parte dei djeli, un certo snobismo nei confronti degli altri musicisti e generi musicali. Questa distninzione sembra essere condivisa anche dagli uomini di potere, che un tempo erano i nobili e oggi sono i dirigenti governativi, ma provengono sempre dalle stesse famiglie e portano gli stessi cognomi di prima, i quali sostengono e chiamano, sia per i concerti privati che per le occasioni ufficiali, quasi esclusivamente ensamble classiche di djeli malinke. Ciò accade, ad esempio, quando un capo di stato straniero è in visita in Mali, e il presidente lo onora chiamando a suonare il suo djeli più rinomato, Toumani Diabate.
Per questo mi sembra assai significativo il fatto che nelle produzioni di Mali K7 la musica tradizionale dei djeli sia scarsamente rappresentata, anche se non saprei dire se ciò sia dovuto ad una precisa scelta o sia invece una conseguenza del fatto che tale tradizione musicale sia preservata e sostenuta dai meccanismi della società tradizionale in altro modo e in misura maggiore. Chiusa parentesi.
Ali Farka Toure allo studio Bogolan