Muhassin Pizii” Me and Layl”, recensione
Ho sgranato gli occhi nel momento in cui ho iniziato a leggere la biografia di Muhassin Pizii. Ho creduto in un errore; leggere 1998 mi ha sinceramente sorpreso. Infatti, il giovanissimo musicista pescarese (di origini italo marocchine) non ha fatto che stupirmi dalla prima all’ultima nota di un disco che, pur celando le venialità naturali e fisiologiche di un esordio, offre un ascolto splendido e a tratti magico. Sonorità ricercate tra i valori emozionali che si accompagnano ad un suono gentile e deciso. Un mood garbato, in cui la tecnica si mescola con armonie disincantate, aperte e ricche di sfumature metaforiche, che sin dai titoli stessi riescono a raccontare la vita di un giovane e talentuoso musicista.
Il disco, promosso da Music Force, basa la sua forza impattante sui contorni di un semplice digipack, in cui la cover art cerca di raccontarci la nudità espressiva di note immerse in un cosmo naturale e realista, che nasce e cresce dalla creatività strutturale di partiture, in cui sembra contare più l’amore ardito per la sei corde che non i virtuosismi esibitivi.
Ad aprire le porte del full length è (ovviamente) la dolcezza chitarristica, pronta a svegliare i nostri pensieri al suono delle dita che scorrono veloci e delicate, mostrando tecnica ed efficacia esecutiva attraverso percorsi annodati da un fil rouge sottile ma concreto. Un estetica narrativa che dona ossigeno alla delicatezza osservativa di For my mother, da cui affiora un cuore artistico, abile nell’ottimizzare tecniche espressive, ideali nel disegnare un’ambientazione immaginifica per i titoli tutti di una tracklist posta tra silenzi, tempi ragionati e visionaria emozione. Così, tra movimenti incantati (The begin of Hajet) e andamenti rallegranti ( Stories of Hajet) Pizii ci offre gradevolezza descrittiva con Me and Layl, in cui finger picking e stoppate rilanciano un’aurea aperta, lasciando agli astanti il dovere di immaginare una storia che non ha necessità di essere raccontata per essere esplicitata.
Ascoltando il disco nel suo insieme appare comunque difficile definire il climax narrativo, in quanto spesso le tracce (Memories e Dreaming you)sembrano masticare il tempo attraverso una fonte narrativa che metabolizza l’intero disco sotto forma di un unico racconto espressivo; un sorta di romanzo da leggere per intero, giocando con i singoli capitoli, parte di un unico corpo espressivo.
Nonostante il buon livello, è con la liberatoria Let your wings fly che l’autore permette all’astante di librarsi definitivamente verso sospiri aperti, assegnando un’attesa serenità profonda, anche grazie ai richiami tradizionali di una spensieratezza che ci porta verso Soraya’s etude, traccia in cui il mondo jazz compone una chiusura allegra per un disco silente e ben congeniato, in grado di trasportare chiunque in un mondo surreale da immagina e da osservare.
Un disco, quindi, da ascoltare con l’attenzione di chi pensa per evitare di tralasciare i cromatismi soffici che si nascondono dietro ogni angolo.