“Scream your hate”, Zora, recensione

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Sono tornati. Dopo ben 6 anni sono tornati, trovando la loro “via per urlare il proprio odio” attraverso un disco maturo e ben calibrato che non ha davvero nulla da invidiare al mondo brutale d’oltreoceano. Pervengono da Vibo Valentia nel profondo Sud di un’Italia sempre più attenta alle estremità del metal, nonostante un’ancor mal radicata esterofila.

Il nuovo full lenght dei Zora arriva dopo una lunga attesa, ma se attendere significa ritrovarsi un disco come Scream your Hate allora, mi permetto di dire (in maniera palesemente inquinata dalla mia soggettività) che il tempo regala piccole perle brutali, curate nel proprio songwriting, piacevolmente innestato tra riusciti riff granulari che vivono di ricordi death. Un lasso di tempo che (qui) appare metro essenziale per la creatività, a differenza di chi (come ad esempio gli Humiliation) si dicono in grado di sfornare ogni anno un disco… che avrebbe potuto essere, ma che mai è stato.

Quest’ode alla lentezza, o se preferite alla ponderatezza tanto amata da Stanley Kubrick, a mio avviso è stata proprio l’arma decisiva per riuscire ad editare uno tra i dischi brutal più interessanti di questa ultima parte dell’anno, proprio come dimostrano le gocce marcescenti, la follia, il dolore e le urla dell’incipit, pronto a inabissarci verso un’inattesa profondità “doomatica”. Un inizio folgorante che crea rattrappimento e destabilizzazione. Un insano approccio che ci invita a partecipare alla orrorifica Dripping, overture oscura e snuff, composta da una ricercata struttura emozionale, in cui la voce di Tato ricama con abilità impronte gutturali rare nel panorama italiano.

La compostezza espressiva e i riffing ruvidi ci conducono nei meandri della golden age quando Shuldiner iniziava ricercare gli estremismi del metal. Infatti, questo nuovo Scream your hate, pur risiedendo nel territorio brutal, sembra dover molto al death anni’90.

Il disco appare una naturale e fisiologica dichiarazione di esplicita maturità compositiva, atta a definire un perfetto parallelismo tra sonorità accessibili e vocalità gutturale. Un attrito perfetto che emerge dalla ridondanza di Outcast, pronta a mostrare la capacità lirica del power trio.
Non mancano poi oscurità claustrofobiche che si celano dietro alla nuova fatica dell’ensemble, pronte ad emergere tra le linee di Blinded, definita da rapidi e violenti tracciati che si ergono tra i migliori passaggi del disco, non solo grazie all’istericizzazione del drum set, ma anche e soprattutto per merito dell’ossessivo tempo mantenuto a galla da una perfetta alchimia tra le parti.

Il mondo cruento, (iper)reale e privo di mediazioni viene poi enunciato dagli intenti metaforici di Slave of mind e dalle impronte brutali di Refuse, introdotta dal sampler ghermito dal mondo filmico di Alejandro de la Iglesia Mendoza, in cui il terrore e l’aberrazione sociale si uniscono ad affilati passaggio chitarristici, le cui le note profonde si avvolgono come un DNA mutante alla linea del cantato che ci porta a chiudere il circolo espressivo con l’attesa titletrack ed i movimenti violenti di Abracadabracab, in cui troverete livelli differenziati di significato e significante.

Pertanto, alla luce dei fatti, non ho dubbi nel consigliare l’acquisto di questo disco (vinile, cd, tape non importa) continuando a demonizzare l’orripilante mondo della musica digitale.

Tracklist

1. Dripping
2. Outcast
3. Blinded
4. Slave of Mind
5. Refuse
6. Trapped Mosquito
7. Banquet of Flesh
8. Abracadacab
9. Scream Your Hate