The chanfrugen” Shah Mat”, recensione,
Con questo disco vorremmo far scoprire la bellezza dell’inutile.
Un disco, dico sempre, parte dalla sua copertina. La cura di una cover art, del packaging e del supporto racconta molto di più di ciò che si possa immaginare, soprattutto per chi vive la musica come un’arte. Una workart dovrebbe racchiudere in sé l’anima essenziale dell’opera, attraverso significanti ed estetica.
In questo curioso Shah Mat, anche se il concetto estetico a tratti appare migliorabile, l’accorta metafora, la scelta dei cromatismi ed il collage di tecniche miste racchiudono in quel curioso cerchio di riso il mondo dei The Chanfrugen.
Uno scacco all’ascoltatore medio, imprigionato in un rock dai rimandi classici e dalle venature prog & blues.
L’album, edito da Molecole Produzioni e promosso da Macramè Trame Comunicative, miscela istinti vintage al servizio di un full lenght nato in presa live e pronto a disegnare stilemi che dal mondo orientale ci trainano nella visionaria rappresentazione dell’inutile, attraverso i suoni inusuali di sitar, mellotron e riferimenti colti.
L’apertura sonora è data da un loop introduttivo, inquieto e circolare. Un andamento reiterato attorno a sensazioni space che si sintetizzano in maniera repentina attraverso toni quasi estranianti, che modulano un songwriting mai banale.
Un impostazione vintage che racchiude in sé un sapore estetico ben caratterizzato e avvolgente, alquanto limitrofo al mondo prog anni’80, in cui si mescola una psichedelia diretta e sentori baustelliani
Il viaggio onirico e diluito prosegue fluido sulle note di Parassiti, brano in grado di acquisire il senso di angoscia espressiva attraverso l’impostazione narrativa, che non guarda certo all’easy listening, ma ad una ragionata esposizione. L’aurea di cupezza che aleggia sopra alle impronte prog apre poi la visuale sul riuscito riffing di Rhum, spezie, sciac tra , naturale richiamo alle radici deepurpleiane.
La traccia, di certo tra le migliori esecuzioni del disco, sembra volersi vestire da colonna sonora di un testo filmico, tra giochi rumoristici, che si avvicinano a ridondanze space, e reminiscenze seventies. Ma non c’è tempo per osservare, perché la band ha urgenza di viaggiare verso il medio oriento, mediante un’impostazione musicale che pesca la propria intuizione creativa dalla Trilogia del potere, dentro la quale vivrebbe in maniera coerente tra sitar e sei corde.
L’inevitabile aumento climatico arriva con la struttura evocativa della perfettibile T.S.O., per poi tornare sull’atteso con i riff schizoidi di Delle fave ,su cui si appoggia il dolce suono del mellotron, da qui parte e riparte la voce filtrata, pronta a cucirsi ad una partitura ricca di cromatismi.
Anche qui cambi agogici e mutamenti direzionali portano verso la chiusura del disco ( Limonov ) interessante ritmo, che sembra partire dalla Bologna post punk dei primi anni ’80, per poi riversarsi su di un minimale contorno.
Un disco poliedrico, che non vuole piacersi, ma si limita a raccontare storie attraverso un uso lessicale curato e per certi versi realista.
Tracklist
1. Voodoo Belmopan (ouverture)
2. Belize
3. Parassiti
4. Rhum, spezie, sciac tra
5. Shah Mat
6. T.S.O.
7. Delle fave
8. Limonov