Salif Keita & Manfila Kante – The Lost album
Per chi è appassionato di musica dell’Africa è difficle raccontare chi sia Salif Keita, troppe cose ci sarebbero da dire, tanto che alla fine viene voglia di star zitti. Salif Keita è nato a Djoliba, un villaggio in Mali sulle rive del fiume Niger. E’ di nobile stirpe. Il suo cognome è lo stesso di Sundiata Keita, il re leone, che fondò l’impero del Mali all’inizio del 13° secolo. Inoltre è albino. Di strano c’è che un nobile mandengue non potrebbe cantare, perché ci sono i griot che lo fanno per lui. E anche che un albino in Africa è un figlio degli spiriti, una variante maledetta, guardata da tutti con sospetto. Quindi, un nobile albino che canta è veramente un concentrato di tradizioni e con-traddizioni. E non è finita.
Salif Keita è stato tra i primi a far conoscere la musica africana al mondo intero, prima che nel 1989 nascesse la Real World di Peter Gabriel, pochi mesi dopo che Paul Simon pubblicasse Graceland. Tutto questo con un solo album, Soro (Mango, 1987), grazie al quale è divenuto una star. Soro è stato anche vissuto da alcuni come un grande tradimento; tastiere, sintetizzatori e arrangiamenti “hi tech” costruiti in studio a Parigi hanno allontanato la sua musica dalle radici, abbastanza da far indignare tradizionalisti autorevoli del calibro di Ali Farka Toure. Non stupisce. Il fatto che la sua voce sia tra le più belle e intense dell’Africa non basta a farne un djeli, un custode della tradizione.
Sono passati almeno 6 o 7 dischi da Soro, di cui l’ultimo, lo splendido Mouffou (Universal, 2002), è un ritorno alla semplicità delle atmosfere acustiche, con numerosi brani per sola chitarra e voce. Ma quello che abbiamo tra le mani oggi non riguarda l’epoca post-Soro, bensì risale al 1980.
Manfila Kante (non capisco perché nella copertina del disco viene chiamato con il cognome che precede il nome) è il fratello di un altro pilastro della musica mandengue, la cui storia ha molto in comune con quella di Salif Keita: il guineiano Mori Kante. Ma non parlerò di lui, se non per dire che il secondo album che ha fatto conoscere la musica mandengue al mondo è stato proprio il suo Akwaba Beach (Barclay, 1987), uscito lo stesso anno di Soro e contenente il famosissimo successo Yeke Yeke, che ha spopolato nelle discoteche di tutto il mondo.
Il suo fratellino minore, Manfila Kante, è un chitarrista legendario, dal tocco raffinato e dalla sensibilità portentosa, il quale ha scritto alcune pagine memorabili della musica mandengue proprio con Salif Keita e il loro gruppo denominato Les Ambassadeurs du Motel, che divennero in seguito Les Ambassadeurs International. In pratica, Manfila Kante ha condiviso un’incredibile amicizia con Salif Keita, grazie alla quale hanno insieme infiammato per anni il panorama musicale di Bamako.
La casa discografica francese Cantos è nata ora, e non stupisce il fatto che tenti il colpaccio: registrato nel periodo in cui i due erano ad Abidjan, in Costa d’Avorio, i master di questo album sono rimasti in qualche cassetto per 25 anni. Purtroppo il colpaccio riesce siolo a metà: la registrazione non è granché, e le note di copertina sono davvero povere, mancando persino la lista dei musicisti.
Se non conoscete Salif Keita, non cominciate da questo disco. Se invece già conoscete Soro, o uno qualsiasi dei suoialbum degli anni ’90, e conoscete la canzone Mandjou suonata dagli Ambassadeurs (una versione da quasi 13 minuti si trova in The Mansa of Mali … A Retrospective, Mango, 1994), e possedete anche Mouffou, allora potete acquistare The Lost Album. Rispetto agli Ambassadeurs, escludendo un paio di brani, qui l’impianto musicale è più tradizionale,l’impostazione della musica è classica, le canzoni provengono almeno in parte dal repertorio Djeliya. E’ proprio questa impostazione classica a dare valore all’album. Ascoltate la chitarra di Manfila, che per riuscire a tirar fuori quel suono così simile a una kora deve aver tirato le corde fino quasi a spezzarle. Oppure provate ad ascoltare la traccia 5, Nakana. Due chitarre, una tromba e la voce di Salif Keita che racconta una storia. Una voce giovane e potente, da autentico djeli. L’unica amarezza è non comprendere le sue parole. L’atmosfera è quella delle antiche corti malinke, le storie sono vecchie di secoli. Per chi già ama Salif Keita questa sola canzone vale il disco.