Ophiuco “Hybrid”, recensione
Chiudete gli occhi e spegnete il mondo intorno a voi; posate le inquietudini e lasciate che l’arte “ibrida” di Asclepio vi avvolga. Lasciatevi curare i mali quotidiani dalle note ipnotiche di un’opera in grado di percorrere il mondo ponendosi su di un onirico piano parallelo.
Se presumere di essere pronti ad un viaggio infinito, aprite l’originale packaging degli Ophiuco e lasciate la quotidianità reale, affinchè il nuovo disco della band si schiuda con immediatezza in una amara delicatezza alternative. Sonorità avvolgenti in grado di ridefinire il trip hop, mostrando infinite sfumature inattese, pronte a far viaggiare da oriente (Trip) fino a lande estese (Desert), mostrando divergenze esplicite con il recente passato.
La profondità espressiva del combo si erge con animosità tra le gracchianti note disturbanti di Pneumatica Psycho bodhidharma , che lascia alla voce di Irene Parabita il controllo di un mondo non troppo discosto da fibre Portished. Da qui si riparte per i giochi spoken-word di Ground e le matrici pseudo noise di While che, con i suoi riverberi e le sue eco, rapisce l’ascoltatore ovunque esso sia, per condurlo verso una forma canzone sognante e limbica.
Tra gli episodi più interessanti del disco sembra emergere Scrowls of intentiones, animata da sensazioni Nick Cave e spezie Air, pronte a riportare alla mente reminiscenze filmiche, proprio come accade nei passaggi claustrofobici di Transitional eyes, da cui ripartono apparenti aperture a climax sonori vicini al nord europeo, per poi volgere verso intuizioni di libertà Jazz.
A diramare le nebbie visionarie di Hybrid è infine Game machine, in cui Paolo Messere e Valeria Sorce si offrono per una sorta di bonus track, ideale per rigettare l’ascoltatore in una crypto-realtà ridefinita da un utilizzo sensoriale della narrazione. Un sentiero dall’aperto finale, in cui percussioni e blandi rumorismi si allineano a meccaniche espositive raffinate e poste a debita distanza dalla banalità.