The Natural Dub Cluster “In deep”, recensione

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Come talvolta mi capita di affermare, un disco ha inizio ben prima del suo ascolto, proprio come accade con questa nuova interessante release dei The Natural Dub Cluster, grazie alla curata opera di cover art, in grado di spegnere il mondo circostante per indirizzare l’osservatore verso un buio espressivo, da cui emerge lontana una fioca luce, posta al centro di una ragionata sezione aurea.

Il disco, licenziato dalla Bloody sound Fucktory, in sinergia con Alambic Conspiracy, si presenta sin dal primo ascolto come un unico tracciato in grado di ferire mediante un attentivo intreccio sonoro, basato su estetica empirica e nichilismo narrativo. Infatti le profondità descrittive si rifanno alla fonte di ispirazione concettuale legata al poeta Andrea Palazzo. Proprio dalle idee del poeta osimano sembra voler ripartire la band visionaria ed inquieta (Bassalt), ma abile nel definire minimalismo espressivo, intercalato sulle lunghezze elettroniche (Ouroboros) prive di reale localizzazione.

Ascoltando l’avvolgente opera nuova, si giunge alle profondità recondite dell’inquietudine umana, mediante un riuscito incipit, in grado, sin da subito, di orientare gli ascoltatori verso un ipnotico e ridondante dub, appoggiato su strutture grigie e nervose. Infatti, proprio come mostra l’iniziatica W.G.T., l’intento della band sembra essere quello di fondere espressività diversificate attorno a indefinite coloriture espressive. Un approccio teatralizzato in cui la linea vocale, non troppo divergente da certe espressività industrial di Brian Warner (Global Warning), si lega a pulsazioni battenti e psichedeliche, in grado di ridimensionare le sonorità atte a varcare i confini spigolosi. Proprio i valori angolari mostrano disturbi emotivi vicini ad andamenti sintetici, tra echi e riverberi ben strutturati, proprio come dimostra la straordinarietà strutturale di Echoes in the ground. Un coacervo di asperità sintetiche, che si armonizzano alla perfezione vocale di Olivia Foschi, le cui caratteristiche ben si pongono tra Dolores O’Riordan e Dido. Proprio grazie a tracce come questa, l’ascoltatore riesce a viaggiare ad occhi spenti in quella profondità emotiva, ben metaforizzata dal titolo.

Se poi con Redo no alter si gioca con le sensazioni disturbanti e libere, è con la consequenziale Do not Alter che i fratelli Muscoloni giungono all’essenzialità. Un impostazione maturata su schemi rap impreziositi dal featuring di Uochi Toki, abile nel ridefinire i contorni ipnotici e angoscianti della traccia, avvelenata dai tempi e dalla forma irrequieta. La lirica, tra le più interessanti del platter, sembra voler aprire gli spazi narrativi al veleno di Venom, cadenzata composizione, animata da deformazioni sonore che mescolano il beat minimale all’interveto del “non fratello” Ike, al servizio di alterate strutture oscure e cripto psichedeliche.
A restituire appieno l’oscurità avvolgente è infine lo spoken word di Deep Black, viaggio angosciante ed horrorifico, tra i meandri di una futuristica e deviata civiltà, lettura perfetta e contemplativa di note acute e taglienti, qui in grado di convogliare la propria forza nel calpestio ridondante e disorientante delle partiture.