Raging Age “Regions of sorrow”, recensione

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Ad ascoltarli bene, non si direbbe, ma arrivano dal sud di un’Italia metallica sempre più vitale.

Si chiamano Raging age e giungono a noi tramite la Worm Hole Death con un album di stampo death, fortificato da un tecnicismo decisamente prezioso e riff avvolgenti, base di una strutturazione mai banale, al servizio di un debutto che debutto non appare, grazie alle sue sfaccettature sonore da cui è difficile uscire.

Pochissime sbavature e una costruzione artistica curata nel dettaglio, sembrano palesarsi sin dal primo ascolto, proprio come dimostra l’ottimo incipit martellante di Cerberus, di certo tra le migliori tracce del platter. Il guardiano degli inferi, richiamato dalla work art dalle impostazioni black metal, offre un vorticoso utilizzo della doppia cassa, abile a definire un’imponente collisione sonora dai tratteggi ipnotici e il suono devastante di una chitarra volutamente posta su di un piano sequenziale in background.

In viaggio tra le fiamme dantesche si concretizza ulteriormente con Region of sorrow, brano marcatamente heavy. La sua introduzione versa macchie di nere sulla partitura, in grado di invitarci tra le regioni del dolore, per vivere impeti sonori e perfezionismi sempre attenti a garantire la necessaria grettezza espositiva. Da qui, il corpulento blast beating accompagna l’ascoltatore sulle soglie del black metal, complice la strutturazione di alcune aperture sonore che travalicano il Death Style, attraverso piccoli e definiti cambi di direzione, atti a volgere lo sguardo verso Hail Horrors.
L’ impronta sonora della band, pur rimanendo ancorata a riff taglienti e granulosi, talvolta si concede enclave soniche curiosamente calmieranti, da cui emergono le 4 corde di Fil, pronto a raccontare una rampa emozionale, (spesso) trovando un accorto e violento sfogo ridefinito come mistura tra heavy, black and death.

Le note proseguono con The slaughter, traccia strumentale meno riuscita di M.O.H, e l’ottima In the gloom of the cave, in cui la velocità esecutiva si avvale di lievi cuciture cripto sinfoniche fagocitate da un andamento vorticoso e battente, pronto ad invade l’ascolto sino agli sviluppi di Hexhaling the end, composizione minimale dal sapore anni ‘90, qui inquinati da stilemi modernisti ed improvvise mutazioni referenziali.

A chiudere l’album è Graveyard of skulls, perfettamente illustrata della back cover, a mio avviso, ancora più accattivante della cover art stessa. La traccia, basata su di un testo sintetico e diretto, che per certi versi porta alla mente l’arte scrittoria dell’Altare della follia, si offre come atto di chiusura, attraverso sonorità in linea con le attese di un album che, se fosse stato pubblicato agli albori degli anni 90, avrebbe forse fatto la storia.